Digitocrazia e palazzismo

28 giugno, 2021 | No comments

La tecnocrazia, recita asciuttamente l'Enciclopedia Garzanti, è un «sistema politico fondato sulla gestione del potere da parte degli esperti e dei tecnici delle varie discipline». È a ben vedere un concetto acefalo, un calembour autologico dove gli strumenti (la tecnica, i tecnici) di un'attività (κράτος, il potere) diventano di quest'ultima gli autori e finiscono così per rappresentarla senza un soggetto, dadaisticamente appesa a se stessa. La tecnocrazia è uno sterzo che guida, una scarpa che corre, ultimamente una scienza che parla. È la licenza misera della miseria progressista, di un cammino (gressŭs) che si dice proiettato in avanti (pro) senza però darsi la pena di distinguere il davanti dal dietro, l'alto dal basso, la tecnica di Hiroshima da quella di Fleming.

Gli inganni del governo tecnico si rivelano nei sottintesi che tacciono. Siccome non può darsi un atto senza un autore, chi finge che spetti al pilota decidere la meta del viaggio promuove da un lato la finzione corollaria e quadratica del «pilota automatico» (cit. Mario Draghi, 2013) e da lì governo degli algoritmi in cui l'umano è obsoleto, dall'altro consegue l'unico obiettivo plausibile di nascondere le umanissime dita che tirano i fili del timone «intelligente». Il tecnocrate è letteralmente il Turco, il robot scacchista creato nel Settecento da Wolfgang von Kempelen per stupire un pubblico così ottusamente fiducioso nei prodigi della tecnica da non sospettare che le braccia dell'automa erano in realtà mosse da un giocatore in carne ossa alloggiato al suo interno, sotto uno strato di ingranaggi messi a casaccio. Da allora non è cambiato davvero nulla, sennonché oggi la scacchiera è il mondo, le pedine i suoi popoli.

La tecnocrazia è perciò un'aristocrazia abscondita i cui ottimati non decretano nei consessi pubblici ma muovono gli arti di un golem che si promette senza passioni né peccato, zampettando come topi nel suo ventre buio e facendosi schermo dei meccanismi volutamente contraddittori e barocchi di ciò che chiamano diritto, economia, scienza. Sicché non è difficile comprendere che qualsiasi forma di governo partecipato o anche solo indirizzato a soddisfare una pluralità di bisogni non è compatibile con la tecnocrazia. Ne è piuttosto la vittima designata, fin dall'inizio, come lo sono coloro che hanno salutato nel progresso tecnoscientifico la via maestra dell'emancipazione degli ultimi.

Eppure la rappresentanza popolare regge almeno in effige, si svuota ma non tramonta, certamente per meglio dissimulare le mosse dello scacchista occulto incartandole nei fogli bollati della democrazia, o di qualsiasi altro potere riconosciuto. È interessante osservare i modi di questo asservimento. La metafora più calzante è quella della «digitalizzazione» che indica insieme una tecnologia sviluppata negli ultimi decenni e una concezione antica di cui le macchinette elettroniche sono l'utensile sinora più recente. Il digitale (dall'ingl. digit, «cifra») estende il riduzionismo matematico galileiano dalle realtà naturali a quelle umane e sociali e quindi a tutto, potendosi raffigurare tutto (cfr. ingl. figure, ancora «cifra») inanellando sequenze numeriche (byte). È il trionfo del «regno della quantità» di René Guénon dove esiste solo ciò che si può misurare e prezzare, un regno però lontanissimo dall'essere materialista, perché il numero sta ai numerabili come l'idea sta alle cose e delle cose viola la proprietà fondamentale, che è il limite. Mentre i numeri possono dividersi e moltiplicarsi all'infinito, le cose sono bloccate in basso dall'indivisibilità delle loro particelle minime (gr. άτομοι, «che non si possono tagliare») e in alto dalla loro scarsità naturale. Sicché la digitocrazia è innanzitutto la forma propria del capitalismo e della finanza, che per realizzare la moltiplicazione illimitata dell'utile monetario agganciano lo sfruttamento senza limiti degli uomini e della natura, fino alla spoliazione.

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Come tutte le innovazioni, anche la declinazione elettronica dell'habitus digitale è il parto di un pensiero vecchio che cerca strumenti più affilati per tradursi in opera e annunciare nelle cose un modello destinato agli uomini e alla società. La digitocrazia contemporanea si specchia nell'informatica e nella telematica per attingervi non soltanto i mezzi, ma prima la visione e lo stile. Immagina le comunità come macchine da programmare, dischi vergini su cui far «girare» le istruzioni della norma giuridica, e i decisori pubblici come onnipotenti admin di sistema che possono accedere a tutti i file, anche i più critici e delicati, per sovrascrivere consuetudini, mentalità, diritti e costituzioni con la bacchetta magica di un «click». Sull'esempio dei codici di programmazione, così anche il codice della legge diventa imperativo e procedurale, esprime solo comandi (do, print, read, break... die) e risolve solo con gli obblighi, sempre più fitti e asfissianti, non potendosi d'altronde concepire una macchina che si autodetermina. Se applicata al suddito digitale, la libertà è disvalore, imprevedibilità, undefined behavior, un «baco» che mette a rischio il sistema e va perciò represso a monte disegnando procedure chiuse (if, then, else, switch...) in grado di prevenire ogni possibile evento, o meglio di ridurre la varietà degli eventi possibili incasellandoli nelle griglie degli ausili informatici: moduli elettronici, portali online, app, identità digitali. Col pretesto di protendersi all'umano, il digitale lo aspira a sé e lo snatura.

L'affondo del silicio nella carne produce ferite e sepsi. Costretta nel dominio piatto del numerismo, la complessità reagisce con l'eccezione e il disordine, oppone all'eleganza dei flow chart l'irripetibilità dei caratteri, delle biografie e dei bisogni di ciascuno. Da qui, dall'ostinazione con cui la materia viva sfugge agli algoritmi morti, nasce la rabbia che informa il pensare e l'agire politico dei nostri giorni, la foga di escogitare sanzioni sempre più sproporzionate e severe, la ricerca dei soggetti indisciplinati o anche solo pensanti a cui addebitare il fallimento del programma con l'obiettivo di isolarli e sopprimerli, come i malware che infestano il PC. Al resistere degli usi e delle coscienze, il decisore-programmatore prende a pugni la macchina infedele, la scuote accecato dall'ira e non si fa scrupolo di rimuovere ogni cosa che si frapponga tra il comando e la sua esecuzione - anche la più consolidata, anche quella fino al giorno prima più sacra. Esasperato dagli insuccessi si lascerà infine tentare dalla soluzione più radicale: la riformattazione, il reset, il «grande reset», avendo cura di non lasciare backup.

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Colpisce il fatto che anche chi deplora gli effetti di questo paradigma ne accetti l'impostazione, finendo così per rinforzarlo. La visione politica master-slave attribuisce un ruolo bulimico e spropositato al vertice programmante e crea così la convinzione che nulla possa accadere se non nelle «stanze dei bottoni», nei supremi consessi decisionali a cui occorre perciò rivolgere ogni attenzione e ogni sforzo. È però questa una visione socialmente e anche storicamente invertita. Nella realtà i soggetti politici sono la proiezione delle forze sociali che rappresentano: di queste sono la propaggine istituzionale e accessoria, da queste traggono peso e potere. Credere che qualche centinaia di omini con la valigetta possano cambiare le sorti di decine di milioni di individui e che lo possano fare discutendo, declamando e vergando risme è un'allucinazione che sta riducendo gli istituti di governo a un teatrino di sé, la cui prima vittima è la dimensione diffusa del fare politica, la capacità della polis di immaginarsi e plasmarsi come un organismo vivo, una civiltà. Chi si racconta che valgono solo i palazzi, che extra Romam nulla salus, rinuncia a coltivare nella società le risorse e i poteri da trasferire al vertice e abbandona la prima all'impotenza, il secondo al saccheggio di altri poteri.

Anche la fenomenologia del palazzismo è tecnica. Le ricadute concrete delle decisioni, prese o mancate, sono un dettaglio grossolano che il «cittadino informato» allontana da sé con fastidio. Preferisce strologare su dichiarazioni e tabulati di voto, audizioni, regolamenti, clausole, interpretazioni, emendamenti, equilibri, tattiche e compromessi, corroborato in ciò da un altrimenti inaccessibile archivio di informazioni e commenti offerti dalla rete internet. In aggiunta, i social creano l'illusione di poter conoscere la «vera» personalità, i «veri» obiettivi e i segreti rovelli di chi abita i palazzi, confondendone vieppiù gli atti nei fumenti del gossip e della psicologia d'accatto. Tutti presi dal come e irretiti dal techinicorum degli Abbondi massmediatici e parlamentari, nessuno si cura del cosa, dei frutti da cui solo si deve giudicare l'albero. La politica dell'evo tecnocratico muore dei travestimenti tecnici degli «esperti», ma anche della tecnica di sé.

Non è sempre stato così. La Democrazia Cristiana dominava l'arco costituzionale contando sull'alleanza della Chiesa cattolica e su una fitta rete di istituzioni, iniziative e clientele meticolosamente coltivate sul territorio: parrocchie, ordini religiosi, scuole, università, associazioni, sindacati (ACLI), missioni ecc. Nel mio minuscolo paese il rappresentate locale del partito collocava i giovani dell'oratorio al compimento degli studi, dava consigli legali, trovava medici e ospedali, mediava tra banche, imprenditori, amministratori locali e cittadini, battezzava cooperative, organizzava tornei e concerti, all'occorrenza combinava matrimoni. I comunisti aprivano case del popolo, società mutualistiche, circoli ARCI. Non avendo i numeri e gli appoggi per incidere in Parlamento, uscivano dal Parlamento, allestivano sodalizi e reti di aiuto per i propri elettori. Negli anni '70 Dario Fo e altri davano vita al Soccorso Rosso per fornire supporti economici e legali ai militanti colpiti dalla repressione, mentre i gruppi della sinistra extraparlamentare teorizzavano direttamente la necessità di disertare le istituzioni democratiche a sé nemiche e di contribuire alla lotta operaia con altri mezzi, come fecero. Nel 1969 la periferica Südtiroler Volkspartei otteneva una strepitosa serie di vantaggi amministrativi per l'Alto Adige pur con una rappresentanza letteralmente «zerovirgolista» (tre parlamentari nel Gruppo misto), ma potendo contare su una base agguerrita e sul sostegno diplomatico del governo austriaco.

La politica, diceva Rino Formica, è sangue e m...da, è la somma di tutte le forze e di tutte le violenze, visibili e invisibili, lecite e illecite. Se gli omini con la valigetta (o con lo scettro, nulla cambia) recidono i legami con la società restano soli e i loro palazzi diventano trappole per topi dove banchettano i predatori antisociali del lobbismo e delle congreghe. Non occorre qui raccontare il destino di chi, in ogni parte del globo, si è lanciato alla conquista delle alte torri sognando di pigiare i bottoni del digitocrate, salvo poi trovarsi le catene ai piedi, una mutanda in faccia e un timone di cartapesta con cui fingersi padroni della rotta.

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Tecnocrazia, digitocrazia e palazzismo sono epifenomeni dell'inversione moderna, che fin dai suoi esordi si illude di emendarsi rilanciando se stessa. È paradossale ma non casuale che la pretesa di mettere sul trono i numeri, la scienza e le applicazioni tecniche si stia consumando nell'epoca meno rispettosa del metodo scientifico e della coerenza aritmetica; che la massima visibilità degli «esperti» e delle voci «autorevoli» stia producendo una cacofonia di approssimazioni, opinioni smentite quasi in tempo reale, rottamazione delle nozioni acquisite più elementari, shock emotivi e basse incursioni moralistiche; che insomma la «scienza al governo» stia affondando i governi e la scienza assieme. Non diversamente, il palazzismo vuole imporsi nel momento di massima debolezza dei palazzi, quello in cui si fa strame di ogni principio e di ogni gerarchia del diritto, dove vincenti e perdenti si ammucchiano in barba al voto e le parole elettorali evaporano come peti al vento. È perciò anche il momento in cui le forze antipopolari ed estranee all'ordinamento dominano più sfacciatamente che mai, le si rivendica anche: «i mercati», «i medici», le agenzie internazionali, le corporation straniere, il movimentismo globale. Per chi scrive è difficile non vedere anche in queste contraddizioni grottesche il tentativo dei contemporanei di stendere un velo di razionalità sul caos, di trovare nell'algoritmo la disciplina perduta e di salvare la disumanità del proprio sistema rifugiandosi nell'unico rifugio a ciò possibile, il non umano.


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