Questo articolo è apparso in versione leggermente ridotta e riadattata su La Verità del 15 giugno
2018.
Nella mattinata di mercoledì 6 giugno ho avuto il piacere di partecipare ai lavori del convegno Propaganda in the EU organizzato da Marco Zanni nelle sale del Parlamento Europeo a Bruxelles, dove ho presentato il personaggio e i lavori de Il Pedante (qui le slide). Nel corso dell'evento è stato denunciato con forza il fenomeno della «lotta alle fake news» con cui si mira, anche nel nostro Paese (leggasi l'inquietante DDL Gambaro, n. 2688), a limitare la libertà di espressione sulla rete internet adducendo la «falsità» e l'«odio» di alcuni suoi contenuti. A modesta integrazione di quanto è già stato detto in quella sede, mi piace sviluppare qui una riflessione pedante sul tema.
Il punto più dirimente e rivelatore del baraccone giuridico delle «fake news» è naturalmente il fatto che,
nella pratica quando non anche nella teoria, si indirizza solo alle informazioni diffuse «attraverso
piattaforme informatiche» (DDL Gambaro, art. 1), cioè su internet e i social network, facendo salvi i canali
della stampa «accreditata» e delle istituzioni. Come ha esemplificato Marcello Foa, le notizie false, anche
solo per distrazione o conformismo, sono però «democratiche» e toccano tutti, dall'anonimo commentatore di
Twitter alle segreterie di Stato. Le bufale della provetta di Colin
Powell, dell'esecuzione dell'ex fidanzata di Kim Jong Un o
della morte del giornalista e
dissidente russo
Arkadij Babchenko, che colpivano rispettivamente i governi nemici
dell'Iraq,
della Corea del Nord e della Russia di Vladimir Putin (soddisfacendo così anche i requisiti dell'«odio») o,
ancora, le accuse senza prove rivolte al governo siriano in una serie di attacchi alla popolazione civile o
a quello russo nell'attentato all'ex spia Sergej Skripal, trovavano spazio anche su testate giornalistiche
considerate autorevoli e prestigiose. Riferendo sui temi economici, Alberto Bagnai ha documentato nel suo
intervento casi di informazioni non veritiere diffuse in televisione e sui giornali (ad esempio qui, qui o qui) e poi sbugiardate dagli utenti dei social network in modo così virale da
costringere in certi casi gli autori a scusarsene. Il senatore leghista dimostrava così che la gerarchia ad
auctoritatem sottesa al paradigma delle «fake news» può essere ribaltata e che la pluralità
delle voci, riflettendo una pluralità di interessi, costituisce la miglior polizza contro l'impunità del
falso.
Da una ricerca recentemente commissionata dall'agenzia di stampa Reuters all'Università di Oxford è emerso che in Italia non più del 3,5% degli utenti internet ha consultato siti internet di «fake news» nel 2017, laddove, ad esempio, i siti di Repubblica e del Corriere della Sera raggiungevano rispettivamente il 50,9% e il 47,7% del pubblico. E ancora, che il tempo trascorso mensilmente sui siti internet identificati come «inaffidabili» da «fact-checker indipendenti e altri osservatori» non superava i 7,5 milioni di minuti: l'1,7% di quelli spesi su Repubblica (443,5 milioni), il 2,5% di quelli spesi sul Corriere (296,6 milioni). Anche nei bassifondi di Facebook, così temuti dai benpensanti, le interazioni con il sito di Repubblica superavano di ben 35 volte la media delle citazioni dei siti incriminati (14 volte nel caso del Corriere). Ora, è evidente che un'informazione scorretta cagiona danni tanto più gravi quanto è maggiore la sua diffusione e l'autorevolezza percepita di chi la produce. Sicché, se si volesse davvero arginare la piaga delle «fake news» sarebbe logico concentrare l'attenzione e l'eventuale vis sanzionatoria sui più blasonati prodotti dell'industria mediatica e televisiva, non sulle periferie strampalate o carbonare del web. Ma poiché ciò non avviene - e avviene anzi il contrario - è facile intuire l'effetto oppressivo di queste misure, al netto delle intenzioni o illusioni di chi le promuove. Giacché tutti possono commettere errori, discriminarne le conseguenze fonda i presupposti di un monopolio del falso.
***
Mentre i relatori spendevano parole giustamente infuocate contro queste avanguardie censorie camuffate da morale di Stato, riflettevo sul fatto che un rischio così enorme per l'equilibrio democratico delle nostre comunità sembra essere non solo scarsamente percepito dai fruitori dell'informazione, ma in certi casi addirittura invocato come una garanzia. L'ascesa propedeutica dei «cacciatori di bufale» sul web - quasi sempre monotoni apologeti di una narrazione dominante in senso letterale, cioè di chi domina nei rapporti politici, economici e sociali - segnala un bisogno non tanto di verità, ma di identificare la verità con il potere in carica per realizzare l'«illusione fondamentale» della propria «credenza in un mondo giusto» (M. J. Lerner 1980). Che questo bisogno si rinforzi e si coltivi in un contesto di chiara flessione della fiducia nelle istituzioni in senso ampio - politiche, ma anche economiche, culturali, scientifiche ecc. - si spiega in alto come un tentativo di dogmatizzare messaggi sempre più miseramente traditi dalla prova empirica, in basso come un denial psicologico per non dissipare gli investimenti, in primis emotivi e reputazionali, profusi nell'aderire a quei messaggi. Come nella fiaba del lupo di Fedro, i fallimenti della pars dominans si addebitano ai soccombenti che li denunciano: i «falsari» come i «fascisti», i «populisti», i «rancorosi» e gli «ignoranti» sono gli antagonisti di carta su cui dovrebbe misurarsi l'alta, difficile e sofferta missione dei dominatori, rinverginati perché alle prese con rischi rigorosamente «epocali».
In punto di metodo, se è vero che la «lotta alle fake news» minaccia la democrazia, la sua accettazione segnala che quella minaccia si è già concretizzata a monte e sta già producendo i suoi effetti. Il fatto stesso che se ne debba discutere, che solo si prenda in considerazione l'idea di riservare ai forti il diritto di zittire i deboli, fa arretrare la linea dello scontro non già su chi attacca ma su chi, attaccato, si consegna al nemico. Perché la democrazia non prevede la disseminazione dei poteri, anche di parola e di critica, come una nota a margine, ma vi si fonda per intero affinché dalla contrapposizione degli interessi e delle idee emerga per correzione reciproca la migliore approssimazione di ciò che è «giusto» e «vero» per tutti.
Sarebbe tuttavia poco limitare l'allarme al requisito democratico, perché l'arretramento sotteso a
questi dibattiti è così rocambolesco e puerile da travolgere il buon senso politico, e non solo, degli
ultimi due o tre millenni. L'incompatibilità tra verità e potere è ontologica: non perché i potenti
mentano (lo fanno spesso, possono non farlo) ma perché la prima è un giudizio, il secondo un atto che, per
la costruzione dei concetti, è sempre assoggettabile a un giudizio. In epoche remote quell'incompatibilità
era talmente ovvia che anche il più dispotico dei monarchi ambiva ad assicurarsi (con alterne fortune)
l'appoggio dell'autorità religiosa per accreditare i suoi messaggi: perché era inconcepibile che la
verità si incarnasse negli uomini in quanto potenti e tanto più se potenti, portatori cioè di enormi,
spesso inconfessabili interessi. Ciò a cui si assiste oggi è il tentativo farsesco di recuperare,
svuotandolo, quel paradigma predemocratico sostituendo al certificatore celeste i certificandi governi e ai
ministri divini le commissioni, gli osservatori «indipendenti» e i debunker assoldati dal principe.
Così la coazione al «progresso» produce un regresso al cubo, un cortocircuito all'insegna di una teologia laica dove il governo degli uomini diventa il surrogato feticcio di un inquisitore senza dio, di un pastore del mondo «venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità» (Gv 18,37). La spavalda ebbrezza del progressista di sentirsi «adulto» per avere irriso e negato le consuetudini, i miti e le «superstizioni» del passato lascia un vuoto in cui torna la nostalgia di un padre onnisciente a cui affidarsi per discernere il vero. Ma avendolo freudianamente ucciso, si rigetta nello stesso fango da cui voleva risorgere, con la stessa fede. In questa illusione circolare, di consegnarsi legati al problema per liberarsi dal problema, il bisogno disperato di un'informazione veritiera diventerebbe allora, in modo certo e definitivo, senza speranza.
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