Fino a qualche anno c'era l'urgenza di fare «le riforme», quelle «di cui il Paese ha bisogno» e che «ce le
chiede» qualcuno, quelle per cui bisogna «mettere da parte le divisioni», «lavorare insieme» e «rimboccarsi
le maniche». Come accade con le parole che diventano amuleti, nessuno allora sapeva con certezza in che cosa
consistessero «le riforme», che cosa ci fosse dentro, e in questa indeterminatezza si compiva il loro
incantesimo. Ne «le riforme» ognuno proiettava la propria idea di riscatto. Succursali del più ampio dominio
del «progresso», seducevano tutti con la promessa di «avanzare» a patto che si lasciasse la direzione e la
meta all'immaginazione di ciascuno.
Oggi si parla molto meno de «le riforme» perché - e aggiungo, purtroppo - le si fa. Al palesarsi del
contenuto si eclissa il contenitore, al disvelarsi della violenza se ne tace l'annuncio o lo si affoga nel
rumore dei suoi falsi moventi. Il
riformismo in atto soppianta l'idillio delle sue sirene, ma ciò non significa che non se ne debba indagare
il marchingegno per tentare almeno di soffocare le nuove inflorescenze del suo albero triste.
Storicamente il riformismo è una corrente pragmatica del pensiero socialista che si oppone all'approccio rivoluzionario nel predicare la graduale erosione del modello capitalista, o almeno il trattenimento delle sue derive più estreme in attesa di tempi storici propizi al suo smantellamento. Tolto dalla sua nicchia ideologica, il riformismo odierno richiama più decisamente quello dei despoti cosiddetti «illuminati» del secolo decimottavo, i cui provvedimenti miravano a «svecchiare» la società imponendo per legge le idee e i «valori» dei nuovi filosofi francesi: pensiero scientifico, «razionalismo», laicizzazione del governo, dei costumi, della cultura. Quel retaggio continua a pulsare nell'epoca che noi chiamiamo «moderna», ma che nei fatti scodella le stesse dialettiche da almeno due secoli - scienza vs superstizione, lumi vs oscurantismo, uguaglianza vs casta, civiltà vs barbarie ecc. - e, più a fondo, una visione dei tempi e dei rapporti sociali.
Rispetto al suo omologo socialista, il riformismo di oggi (cioè quello di duecentocinquant'anni fa) è sì rivoluzionario, ma nei modi speciali di una rivoluzione che non può consumarsi, si definisce nell'annuncio di sé e trae ogni linfa dal suo polo antagonista. Una rivoluzione siffatta deve sbilanciarsi tutta sul lato destruens e puntare le armi sul passato con la scusa del futuro. Non parla di miglioramento, ma di superamento, e per definire il superamento definisce solo il superando, cioè l'esistente e l'esistito, in una critica replicabile ad aeternum di ciò che, nominalmente obsoleto, coincide semplicemente con ciò che è reale. «Le riforme» promettono distruzione e possono tralasciare il resto perché nel mentre regalano il sogno di una svolta apotropaica e battesimale in cui tutti sperano, anzi ne sono certi, che vedranno soccombere i loro propri e personalissimi affanni.
L'evanghélion de «le riforme» deve confermarsi postulando l'avvento continuo di «tempi nuovi» che renderebbero inadeguati gli strumenti in uso. Ma l'annuncio, come quello del pastorello di Esopo, è screditato dal suo fitto ripetersi e dalla sua applicazione indiscriminata, o più ancora dal fatto che «le riforme» stesse creano circolarmente le «novità» che invocano e i problemi che dovranno essere poi sanati da altre riforme, a loro volta riformabili, in un moto accelerato e centrifugo dall'unica possibile, ma sacrilega, soluzione: la controriforma.
Siccome il bene è nemico del meglio, con «le riforme» non si migliora alcunché. Nella loro compulsione a ri-distruggere con cadenze sempre più strette si legge piuttosto la trama nichilista di una comunità che, disperando di potersi emendare, si scalda solo nell'immaginarsi azzerata. Non a caso i fronti riformisti (progressisti) più avanzati ribaltano il problema sui beneficiari - perché resistono votano contestano odiano dubitano inquinano ecc. - fino a predicarne la sostituzione o più direttamente l'estinzione, ultimamente perché emettono gas.
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Il combinato dell'aspettativa salvifica e della rottamazione a stretto giro di calendario produce sciagure
concrete. «Le riforme», anche quando fossero utili e buone (periodo ipotetico dell'irrealtà, almeno negli
ultimi quarant'anni), introducono discontinuità, costi e incertezze che si ribaltano sull'applicazione delle
leggi. Richiedono tempi lunghi di ammortamento durante i quali l'eventuale beneficio non supera la fatica
della messa a regime. Per difendersi da questi pericoli dovrebbero misurarsi con i vincoli della
consuetudine, che messa in disparte dal diritto positivo rappresenta nondimeno un patrimonio sociale
invisibile ma fondante, il moto inerziale che regge una comunità e la distingue da una massa. Dovrebbero
riconoscere che la legge intrattiene un rapporto simbiotico con gli usi, che li accoglie e insieme li plasma
in un processo di aggiustamento reciproco. Ma l'etica de «le riforme» disprezza tutto ciò, e lo fa anzi con
orgogliosa intenzione. Già mentre prepara i suoi stravolgimenti e i costi sociali che seguiranno, li
racconta come «opportunità» e «sfide» che creeranno dal nulla competenze, occasioni imprenditoriali e figure
professionali nuove - cioè inutili e parassitarie - alimentando il carico già insostenibile dei
«bullshit jobs» (David Graeber) che soffocano come una fumaggine le forze utili rimaste.
Nel rinverdire il magistero del dispotismo «illuminato» di cui è l'ultima scimmia, quell'etica vede nel sacrificio degli usi consolidati - e a fortiori delle tradizioni - non un prezzo necessario per guadagnare il meglio, ma il meglio stesso, l'obiettivo prioritario e designato dell'azione riformatrice. Come i detergenti delle pubblicità, «le riforme» sono tanto più riuscite quanto più sanno aggredire la crosta tenace della prassi, delle credenze e della morale del volgo, lo disorientano e gli impongono l'onere di una «modernizzazione» ormai indistinguibile dallo sbando di un gregge ferito. I destinatari de «le riforme» devono annichilirsi in un sentimento di difetto e di rincorsa continui, da un senso di colpa che diventa struttura per l'ansia di dimostrarsi degni di ciò che non sono. Agli artefici tocca invece il vezzo di credersi per qualche mese un Federico di Prussia o un Pietro Romanov, una Maria Teresa o un Giuseppe secondo, e di rimirarsi così agghindati allo specchio mentre si immaginano avanguardie di quella stessa storia che di lì a poco li restituirà all'oblio della sua spazzatura. Per chi riforma, fiaccare le resistenze e fustigare i «ritardi», «i pregiudizi», l'«arretratezza», le «false sicurezze», l'«analfabetismo» e le «comode abitudini» di un popolo che è sempre «fanalino di coda» di qualcosa è un vanto, deluderne le aspettative una missione, assecondarne il mandato una debolezza.
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A chi giovano «le riforme»? Nella fase narrativa, più o meno a tutti, perché offrono a tutti la speranza di ripartire col piede giusto sbarazzandosi dei mali presenti. Nella fase attuativa, a chi, nel momento in cui si abbattono, ha i mezzi e i diritti per occupare i vuoti creati dalla loro devastazione: cioè ai più forti. Dovrebbe ad esempio essere ovvio che in un'epoca di quasi-estinzione o assimilazione della rappresentanza sindacale, qualsiasi riforma del lavoro (qualsiasi, senza bisogno di aprire i fascicoli) si risolverebbe in un indebolimento di tutele e salari. O che in un contesto di asservimento ai redditi da usura, qualsiasi riforma (qualsiasi) dei servizi pubblici limiterebbe l'accesso e la qualità di questi ultimi, dovendo estrarre un utile per gli investitori. O ancora, che mentre tre o quattro aziende informatiche fatturano più degli Stati e detengono i segreti di tutti, riformare l'amministrazione in senso digitale consegnerebbe loro poteri ancora più incontrollabili. Dovrebbe essere ovvio che chi è sotto attacco deve prima mettere in salvo i pochi beni che gli restano. Ma siccome sembra non esserlo, lo scrivo qui.
Aiuterebbe soffermarsi sul fatto che la consuetudine di azione-rappresentazione è a sua volta
il residuo composito di «riforme» di diritto o, almeno in premessa, di fatto (ad esempio le guerre) che,
dopo avere impresso il loro trauma, si sono lasciate smussare come cocci di vetro tra le onde. Fuor di
metafora, che il sostrato identitario della comunità destinataria ha prima incassato il cambiamento e poi si
è attivato a sua volta per cambiarlo (ad esempio, nel nostro ordinamento, tramite le pronunce costituzionali
e del Consiglio di Stato, annullamenti, abrogazioni e disapplicazioni sul piano legale, emendamenti,
integrazioni e soppressioni su quello politico, più a monte generando resistenze tali da rendere necessari
aggiustamenti, sanatorie, ecc.). È così che alcune grandi riforme (senza virgolette) del passato hanno
prodotto i loro frutti migliori: dandosi il tempo adattarsi alle necessità e agli stili dei destinatari.
Tutto ciò è naturalmente lontano dal modus reformandi contemporaneo, che sembra anzi riconoscere
questi processi solo per poterli meglio ostacolare. Il rilancio continuo, immotivato e compulsivo
dell'azione riformatrice produce il risultato di istituzionalizzare gli stravolgimenti e i costi del
frattempo, riaprendo nel corpo sociale ferite sempre nuove senza attendere che le vecchie si cicatrizzino,
né che si attivino gli anticorpi necessari per arrestare la sepsi. In questo bagno di sangue sguazzano gli
allegri chirurghi de «le riforme», cinici o vanesi, stupidi o calcolatori, consapevoli o inconsapevoli
costruttori di un ordine che, suggerisce tra le quinte qualcuno, dovrà nascere dal grembo del caos.
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