Perciò, ecco, io l’attirerò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore.
Di
là le darò le sue vigne e la valle di Acor come porta di speranza;
là mi risponderà come ai
giorni della sua gioventù, come ai giorni che uscì dal paese d’Egitto.
(Osea 2,16-17)
Poi il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava
Sifra e l'altra Pua:
«Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è
ancora tra le due sponde del sedile per il parto:
se è un maschio, lo farete morire; se è una
femmina, potrà vivere».
Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re
d'Egitto e lasciarono vivere i bambini.
(Esodo 1,15-17)
A qualcuno è parso strano o stonato che tra i lavoratori del porto di Trieste caricati mentre
protestavano contro l'imposizione del «passaporto verde» qualcuno stringesse tra le mani un rosario. È
un'immagine a cui non siamo abituati. Nell'ultimo secolo e più le lotte dei lavoratori, per il diritto
al lavoro e contro le discriminazioni sul luogo di lavoro, le abbiamo sempre viste fare sotto le
bandiere rosse e dei sindacati, mai con i simboli della religione cristiana. Le dimensioni e l'esito
della protesta triestina suggeriscono di non accantonare il caso tra le eccezioni curiose, ma di
chiedersi piuttosto se non sia esso il segno di un cambio in atto nei modi di rappresentare e di agire
i rapporti tra le forze sociali.
A Trieste i grandi sindacati non c'erano perché non volevano esserci. Già spettatori distratti o
complici degli attacchi al lavoro reclamati dai cravattari globali, si erano lasciati attraversare
come fantasmi anche dall'esperimento assurdo e vendicativo di sospendere i lavoratori della sanità non
vaccinati finanche dagli ordini professionali. Nella vicenda denunciata dai portuali
erano addirittura riusciti a superare i padroni con la richiesta di estendere l'obbligo di iniezione e
le collegate discriminazioni a tutti cittadini, lavoratori e non, senza alternative né deroghe. Dopo un
caloroso abbraccio con il banchiere che guida oggi il governatorato degli italiani e che chiudeva ieri i bancomat dei greci per imporre loro le riforme turbopadronali della «troika», il segretario della Ggil snobbava le
rivendicazioni del molo triestino e invitava gli iscritti a manifestare contro i più masticabili
cadaveri del fascismo. Che pure imponevano una tessera per lavorare, ma non possono più graffiare
dalla tomba.
A Trieste non mancavano solo i sindacati. Non c'erano i politici, ministri, deputati, assessori o
consiglieri comunali, né rossi né neri, neanche in contumacia. Non c'erano le autorità religiose, non
c'erano gli intellettuali. Non c'era nessuno se non il popolo, accorso a migliaia dalla città e
dall'Italia per dare voce ai milioni. Trieste era il ground zero della rappresentanza, il
sepolcro di ogni residua idea di repubblica e di sovranità. Era il deserto, la solitudine finalmente
perfetta di un popolo lebbroso che va rimosso dalla mente e dagli occhi, sciacquato via con gli idranti come lo sporco.
Ecco da quel deserto, come dal deserto degli anacoreti, si alzavano le preghiere, si ostendevano le
icone e si inneggiava all'ultimo monsignore che non promuove punture e pozioni, ma
parla di Dio. Nell'abbandono echeggiavano gli ammonimenti del salmo, che «è meglio rifugiarsi nel
Signore che confidare nell'uomo, meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti» (Sal
117,8-9) e del profeta, che sia «maledetto l'uomo che confida nell'uomo, che pone nella carne il suo
sostegno» (Ger 17,5). Nelle piazze d'Italia si recitava il rosario e lo si
trasmetteva sui canali internet, lo si sgranava negli uffici e in metropolitana, mentre anche i più
scanzonati tra gli utenti dei social rilanciavano l'hashtag #NoiVogliamDio. Spazzato via l'ultimo velo di sabbia, caduto ogni granello
della Gerusalemme giacobina rosa dai vermi del calcolo e della menzogna, riaffiorava la roccia su cui
il saggio edifica un'esistenza, e quindi anche una società, salde nella giustizia (Mt 7,24–27; Lc
6,46-49).
La diserzione dei sacerdoti della lotta di classe, accucciati ai piedi del faraone, ha rimesso a nudo
la lotta eterna contro i frutti delle tenebre che chiama a combattere tutte le classi e tutti gli
uomini in cammino nel deserto delle lusinghe terrene (Lc 4,1-13). Lo scontro si è portato su un
terreno incontenibile nelle mutandine strette delle ideologie. È incominciata la fuga del popolo dalla
tirannide d'Egitto, una fuga di cui il deserto è la condizione e il passaggio. Lungo il cammino non
mancheranno le prove e le tentazioni degli idoli, ma su chi resta fedele scenderanno i nutrimenti
mandati dal Cielo e una mano capace di travolgere gli inseguitori. E scenderà come un tempo la Legge,
la sola su cui possa reggersi un mondo promesso e migliore.
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