La disgregazione programmata degli Stati nazionali sottesa al progetto di unificazione europea si giova anche e soprattutto - in assenza di pregi tangibili per le popolazioni coinvolte - del rispolverato spettro del nazionalismo simbolicamente evocato nella sua vulgata storica più nefanda. Per le sedicenti forze progressiste - sinistre parlamentari e melting pot centrista - quella del nazionalismo è una tentazione retrograda e pericolosa. I nazionalismi, dicono, hanno prodotto le guerre in Europa. Sicché per assicurare la pace bisogna combatterli e anzi - eureka! - privarli del loro stesso oggetto: le nazioni.
È la classica idea semplice per menti semplici. Una trovata pubblicitaria che già da sola dà la caratura intellettuale del progetto - laddove, per dire, un Ottaviano affidava le fondazioni etiche del suo impero ai versi tormentati ed eterni dell'Eneide. Un'ingenuità che se non fossimo pedanti, sarebbe fin troppo pedante chiosare osservando che:
- se l'unità politica fosse foriera di pace, oggi - tra gli infiniti esempi che lascio alle reminiscenze scolastiche dei lettori - negli Stati Uniti circolerebbero le sterline, la capitale della Lombardia sarebbe Vienna e la città di Srebrenica sarebbe ricordata per le sue terme e le sue miniere;
- tutte le unificazioni o secessioni politiche - cioè la genesi di tutti gli Stati - sono processi violenti che alterano gli equilibri pregressi, con o senza le armi. Qualora vi siano le basi minime di affinità - storica, linguistica, culturale ecc. - affinché i nuovi assetti resistano nel tempo, la stabilizzazione richiede come minimo decenni. Il che non è evidentemente il caso dell'Europa;
- le unificazioni non avvengono mai alla pari ma partoriscono figli e figliastri, e quindi conflitti. È accaduto in Italia con le regioni meridionali (dove per la suddetta stabilizzazione non sono bastati 150 anni) e in Germania con i Länder orientali. E sta accadendo in Europa con la leadership de facto tedesca che - nazionalisticamente - modula le regole dell'Unione per perseguire gli interessi di una parte (la sua) a scapito degli altri e dei PIIGS - cioè dei porci, come è uso chiamarsi nei consessi solidali;
- se il buongiorno si vede dal mattino, il nazionalismo e i confitti politici tra popoli europei si sono impennati con l'accelerazione delle politiche di integrazione. I visionari possono pure stordirsi con dosi equine di mito della resistenza, mentre chi è in grado di tracciare una linea di tendenza ha tutti gli elementi per sapere come andrà a finire;
- ma soprattutto, gli eventuali Stati Uniti d'Europa (USE per gli amici) sarebbero una nazione a tutti gli effetti: come l'Italia, la Danimarca o San Marino, solo molto più grande e molto meno democratica. Con un suo governo, una sua bandiera e un suo inno. Sicché gli invasati che celebrano negli USE un antidoto ai nazionalismi sono tecnicamente nazionalisti, con l'aggravante di celebrare una nazione che non esiste;
- in quanto alla pace, questa ipotetica nazione federale sogna un proprio esercito e già oggi dispensa sanzioni - cioè atti di guerra - ai nemici. Quindi per scongiurare una fantastorica guerra tra Italia e Austria o tra Francia e Germania, faremo tutti assieme la guerra alla Russia o a qualche regime afroasiatico rigorosamente "disumano".
Ci fermiamo qui, perché criticare il programma federale europeo significa attribuirgli una progettualità a cui in fondo non aspira. Il miraggio politico di cui si riveste è tanto altisonante quanto strumentale. La limitazione dei poteri nazionali serve più prosaicamente a trasferire i poteri decisionali degli Stati nelle mani di ristretti gruppi di interesse privati che agiscono al riparo dai processi democratici: dalla Commissione (di cui è eletto, indirettamente, solo il presidente) all'Eurogruppo, dalla BCE ai suoi azionisti, dagli speculatori alle agenzie di rating. Poco importa se l'organo a cui gli Stati cedono sovranità non ha le gambe per camminare. Non essendo che un'esca, ciò che conta è che i predatori riempiano le loro reti con i patrimoni e i poteri sottratti alle nazioni per garantirsi, finché dura, una ricchezza che il mercato non può dare: il socialismo dei ricchi.
Più in alto, sul piano geopolitico, la beffa si fa ancora più amara. Perché qui si scopre che il nazionalismo europeo non ha solo il risibile handicap di professarsi antinazionalista, ma anche quello ben più inedito e grave di rappresentare gli interessi di un'altra nazione. Con buona pace degli europeisti dollarofobi col pugno chiuso, la matrice e il patrocinio degli Stati Uniti (d'America) sull'unificazione europea sono documentati già dagli albori della Guerra Fredda. A chi non ha il polso per cimentarsi con la revisione storica (o complottismo, per i diversamente critici) basti chiedersi per quale motivo ci dobbiamo rovinare con le sanzioni economiche ai russi o a che titolo stiamo sostenendo un governo golpista in Ucraina. O perché gli USA-che-hanno-tanta-paura-dell-Europa-unita-e-dell-euro si siano scomodati per tenere nell'euro una Grecia già dialogante con Putin. Caso raro nella storia, i nazionalisti europei non hanno nemici, ma solo nemici dei propri padroni.
Perché l'Unione Europea è la versione pacco della dominazione atlantista. Che questa volta, a differenza dell'atlantismo post-bellico, non prevede vantaggi collaterali per i sudditi europei ma mira a farne un nuovo Sud America, un backyard politicamente servo da spremere e mandare al macello per ritardare l'agonia di una superpotenza in declino e diplomaticamente allo sbando. E non si tratta più solo di missili e basi militari. Oggi lo stesso tessuto produttivo europeo ricostruito 70 anni fa con i dollari di George Marshall rappresenta per gli americani un concorrente da smantellare per ridare mercato alle loro aziende e fare dei Paesi europei una colonia di consumatori e contoterzisti sottocosto.
In tutto ciò ovviamente i governi nazionali rappresentano un deplorabile impiccio. Perché promulgano leggi che tutelano i consumatori, i lavoratori e l'ambiente, perché impongono accise, regolamenti e standard di sicurezza, perché vigilano sulla concorrenza, perché - Dio non voglia! - potrebbero finanche decidere di promuovere l'occupazione e le imprese locali. E non solo: i governi nazionali garantiscono ai propri cittadini servizi che le aziende americane offrono a lauto pagamento. Prima di tutti la sanità, ma anche pensioni, istruzione superiore e qualche volta anche la casa. Smantellare questo articolato retaggio di civiltà è - per quanto ce la si stia mettendo tutta - un compito tecnicamente ingrato e politicamente impossibile. Soccorre allora il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP), l'accordo di libero scambio segretamente negoziato tra USA e UE che prevede la deregolazione forzata dei mercati di pubblico interesse, la libera circolazione di merci e persone (la distinzione ormai è solo formale) e, soprattutto, la possibilità per le aziende di citare per danni in giudizio privato i governi le cui leggi - ad esempio quelle che vietano l'impiego di sostanze cancerogene - dovessero cagionar loro un "mancato profitto".
Un abominio di queste proporzioni non avrebbe naturalmente i requisiti per superare lo sbarramento costituzionale di una nazione civile. Ecco allora la strada: superare le nazioni. L'eterno e sgangherato cantiere federale europeo, questa finta nazione sbandierata sul muso dei gonzi, riserva agli intelletti deboli la promessa di una Gerusalemme celeste di solidarietà e di pace che non può - né soprattutto vuole - mantenere. E nel mentre assolve al suo vero compito, quello di offrire ai forti gli strumenti per legiferare in deroga allo stato di diritto dei singoli paesi aggirandone le garanzie costituzionali. Con la necessaria retorica di supporto: gli Stati nazionali sono vecchi e corrotti, nuociono alla salute e possono causare guerre in chi ne fa uso.
Chiudendo così il cerchio, e il senso, del nazionalismo made in Europe.
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