Con tanti altri figli del baby boom, ho fatto in tempo anch'io a conoscere la Prima Repubblica. L'ho vista e vissuta da bambino nei suoi risvolti pratici, quelli dell'Italia spendacciona (leggi socialdemocratica) e provinciale (leggi sovrana). Da adolescente, prima che un manipolo di magistrati smantellasse tutto, ne intravidi anche i metodi politici.
Nel mio paese alla periferia della periferia di un grande capoluogo del Nord, la Democrazia Cristiana aveva il volto del parroco don Remigio e del maestro Orlando. Il primo fu a capo della parrocchia per più di trent'anni. Andai a trovarlo poco prima che morisse, nel suo paese natale all'imbocco della Valsassina, dove si era ritirato. In quella grande casa c'erano migliaia di libri. Don Remigio mi spiegò che, essendo anche una sezione locale della DC, vi si era costituita una piccola biblioteca a disposizione dei militanti. Sugli scaffali trovai di tutto: autori cristiani di ogni epoca, romanzi anche recenti, classici greci e latini, saggi, enciclopedie, dizionari e grammatiche di lingue straniere. In un angolo a parte, una collezione di poeti in lingua còrsa di cui Remigio era cultore.
Il maestro Orlando era un ex seminarista che insegnava religione nei licei, grecista e bibliofilo, giornalista e critico cinematografico. È ancora vivo. Oltrepassati gli ottanta ha pubblicato una bella raccolta di poesie in cui si dichiara omosessuale e racconta il tormento di avere represso quel segreto per tutta la vita, ricavandone una lunga e grave depressione. Oggi ne parla con serenità e ha imparato ad amarsi come Dio lo ha creato.
Il braccio secolare dei due uomini DC era un gruppetto di industriali e dirigenti d'azienda che in quattro decenni, dal '50 ai primi anni '90, ha dato lavoro a mezzo paese. Di questi, l'unico ancora in vita ha incassato una serie impressionante di lutti famigliari e si è visto l'azienda, un tempo leader in Europa, messa in ginocchio dall'apertura del mercato ai produttori stranieri, dalle delocalizzazioni dei concorrenti e dagli squilibri del cambio.
Più sotto c'era la «scuola di partito». Che non era un luogo, ma un sistema capillare di reclutamento e formazione delle nuove leve politiche che pescava dal vivaio cattolico per eccellenza, l'oratorio. Lì si selezionavano i «talenti» da preparare alla professione politica - non ci si vergognava allora di definire la politica una professione: difficile, nobile, faticosa - e a un cursus honorum che dagli aspera dei consigli comunali poteva dischiudere gli astra del governo nazionale.
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Nei primissimi anni '90 frequentai brevemente la «scuola di partito». Le «lezioni» si tenevano in gruppo in
una saletta dell'oratorio sotto la guida di ragazzi più grandi già avviati alla carriera, o dallo stesso
Orlando. Ciò che mi colpì - allora negativamente - fu il fatto che durante i corsi non si parlava della
situazione politica allora attuale, né di storia dei partiti, né di leggi o di diritto pubblico. Gli
istruttori si limitavano a sbattere sul tavolo un pacco di quotidiani del giorno e ad analizzarne con noi
non già le notizie, ma il modo di dare le notizie. Ci invitavano, ad esempio, a interrogarci sul
perché alcuni giornali riportassero in prima pagina fatti che in altri occupavano poco spazio o non erano
affatto menzionati, sui toni utilizzati nel testo, sulla scelta dei titoli, delle foto, dei commenti. Nel
corso dell'analisi ci fornivano informazioni sul posizionamento politico degli editori, sul contesto delle
notizie e sugli interessi sottesi ai fatti riportati, ma in modo indiretto e mai sistematico, come tessere
che i candidati, con l'avanzare della formazione, avrebbero dovuto autonomamente comporre.
Per un tredicenne «normale» era francamente un po' troppo e cedetti presto alla noia. Ma ripensandoci oggi, oggi che quel mondo e quel modo di fare politica non esistono più, mi rendo conto che per quei formatori e per la tradizione in cui si erano a loro volta formati, una conoscenza precisa e disincantata della macchina dell'informazione, delle sue leve retoriche e del suo vero ruolo di costruzione e decostruzione del consenso non era solo un bagaglio importante per chi si avvia alla carriera politica, ma il primo, fondamentale requisito di accesso a quella carriera, tanto da mettere in ombra, filtrandola, ogni altra competenza. Perché agli esponenti della scuola democristiana - come, immagino, anche di quella comunista e delle altre - era lampante che le narrazioni della stampa sono per chi è governato, non per chi governa. E che la lettura dei giornali non serve ad avere le notizie, se non per eterogenesi dei fini e in mancanza di fonti migliori, ma per conoscere e anticipare le intenzioni di chi scrive, pubblica e finanzia i giornali. Per quei maestri il politico doveva al limite ispirare l'informazione ma mai, per nessun motivo al mondo, lasciarsene ispirare.
Quelle preoccupazioni e quei metodi possono sembrare ossessivi, ma il tempo trascorso da allora ha dimostrato che non lo erano affatto. Oggi alcuni amici, credendomi interno alle cose del Palazzo, mi chiedono consigli su come iniziare una carriera politica. Io mi rallegro che come allora ci siano persone, soprattutto giovani, che desiderano impegnarsi nel governo comune, ma quando chiedo loro quali siano i loro programmi scopro che, a seconda dei casi e del giorno del mese, essi intendono contrastare «l'avanzata delle destre» o «i comunisti», dichiarare guerra al «razzismo», al «populismo» o alla «corruzione» (che-mangia-miliardi), «fare qualcosa» per i «migranti», frenare le «spese pazze» dello Stato, «mettere ordine nei conti pubblici» eccetera. Al che mi taccio. Non perché quelle idee non meritino discussione. La meriterebbero se fossero appunto... idee e non parafrasi, nei contenuti e nelle formule, degli editoriali del giorno. Se aggiungessero un'analisi o quantomeno una parola, un punto di vista, a ciò che può già leggersi nelle bacheche delle edicole, nei titoli dei telegiornali o sui portali web dell'informazione «accreditata». Se ci fosse insomma la sensazione, anche vaga, che ci si stia solo affacciando da una piccola finestra distorta sul mondo e sulle possibili scelte di pensiero e di azione per comprendere e per cambiare quel mondo.
Capisco allora che sta accadendo oggi ciò che ieri l'Orlando e i suoi giovani assistenti temevano: che il quarto potere di Welles, diventato il primo, avrebbe dettato a chi fa la politica e a chi sogna di farla non solo l'agenda ma più gravemente i confini di un dicibile e di un percepibile da non oltrepassare. Che pochi manovratori avrebbero condotto le classi politiche come falene alla luce, illuminando questo o quel minuscolo spigolo del tutto e lasciando sprofondare nel buio tutto ciò che non deve essere compreso, né disturbato. Già oggi sempre più politici, docili al guinzaglio della rassegna stampa mattutina, commentano le notizie mentre le notizie commentano i politici che commentano le notizie, in un teatro degli specchi tutto letterario in cui trionfa la parola e i fatti seguono a distanza, o non seguono affatto.
Tornando ai miei giovani amici, avrei potuto risponder loro che destra e sinistra sono due modi antichi e legittimi di intendere i rapporti sociali, ma che non devono necessariamente identificarsi ne «le destre» e ne «le sinistre» di cui scrivono oggi - non ieri, né domani - i giornali. E che il dramma delle migliaia che entrano nel nostro Paese non è più urgente di quello delle migliaia che lo lasciano, dei milioni che non possono o non vogliono partire e dei miliardi che, in generale, non hanno la fortuna di riscaldare il cuore o l'interesse della grande «opinione». E ancora, che il problema dei soldi pubblici si colloca nella loro definizione e giurisdizione, non nella loro quantità. Sono sicuro che avrebbero compreso senza fatica queste e altre nozioni, ma non altrettanto che avrebbero riconosciuto loro la dignità di esistere al di fuori del cono di luce del riflettore mediatico. Perché il merito è accessibile solo a patto che il metodo ne autorizzi l'inclusione. Temo perciò che sarebbe servito a poco.
Affinché la filologia e l'educazione al possibile diventino sistema e non tesi stravaganti di qualche blogger o anziano professore, servirebbe altro, ad esempio una scuola. Come la vecchia scuola di partito della vecchia Repubblica. Che forse anche per questo motivo, pur tra i tanti suoi limiti, ha smesso di esistere.
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