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spagnola.
Dicembre 2016. A Port Said (Egitto) una pattuglia di polizia avvista una bambina coperta di stracci insanguinati che corre tra le macerie di un edificio abusivo in demolizione. Avvicinatisi, gli ufficiali vi trovano altre persone: un regista, due cameraman, un ragazzino e la famiglia della piccola, il cui sangue si rivela poi essere vernice rossa. Il gruppo finisce in commissariato. Lì il regista confessa ai poliziotti l'intenzione di realizzare e distribuire un finto reportage sulla crisi umanitaria di Aleppo, la città siriana a lungo assediata dall'esercito governativo di Bashar al-Assad.
Nello stesso mese gli oppositori del regime siriano diffondono sui social network la fotografia virale di un'altra bambina in corsa tra i cadaveri. Nonostante la maccheronica didascalia che la accompagna («It's not in Hollywood This real in syria»), l'immagine è in realtà tratta da un videoclip della cantante libanese Hiba Tawaji. Due anni prima, il 10 novembre 2014, il tema era stato declinato anche da una troupe cinematografica norvegese con un cortometraggio intitolato «Eroico ragazzo siriano salva la sorella da una sparatoria». Prima di ammettere che il film era un falso girato a Malta con attori professionisti e fondi inspiegabilmente pubblici, gli autori avevano incassato più di 5 milioni di visualizzazioni e scatenato l'indignazione di pubblico ed esperti per l'«uso di cecchini contro i bambini piccoli» da parte dell'esercito siriano.
La guerra contro la Siria è un laboratorio di prostituzione minorile coatta alla propaganda degli aggressori. Si consideri l'ottenne Bana Alabed, l'«Anna Frank della Siria» che dal suo account Twitter commuove ogni giorno i suoi oltre 370 mila follower denunciando in tempo reale i dolori inflittile dalle armi di Assad e lanciando appelli alla pace (cioè a un intervento militare degli eserciti occidentali), alla felicità dei piccoli siriani e, se occorre, all'amore universale. Il tutto nonostante sia accertato che la piccina non conosca una parola di inglese, che i suoi tweet non provengano da Aleppo ma dall'Inghilterra e che il suo babbo militi nel gruppo terrorista antigovernativo Kataib Safwa al Islamiya.
In almeno due casi queste strumentalizzazioni sono approdate sulle prime pagine dei nostri giornali, quando una mano autorevole recapitò nelle redazioni le immagini dei piccoli Alan Kurdi e Omran Daqneesh. Il primo, fotografato riverso sulla spiaggia di Bodrum da cui era partito con la sua famiglia nella speranza di raggiungere clandestinamente l'isola greca di Kos, divenne il simbolo della disumanità dei governi occidentali che negano accoglienza e corridoi umanitari sicuri a chi fugge dalla guerra. Si taceva così il fatto i protagonisti di quella tragedia non stavano fuggendo dalla guerra, trovandosi già da anni al sicuro in Turchia, e che il capofamiglia intendeva raggiungere l'Europa, e da lì il Canada, per motivi economici.
In quanto al piccolo Omran, il suo corpo impolverato e ferito fu estratto dalle macerie di un bombardamento
e fotografato dai membri dell'organizzazione non governativa White Helmets. I giornali pubblicarono
l'immagine scrivendo, senza alcuna prova, che la casa in cui si trovava il bimbo era stata rasa al suolo da
un attacco aereo «russo o siriano». In un clima di fondati dubbi
sull'indipendenza e sul ruolo dei caschi bianchi siriani, si scoprì poi
che l'autore della fotografia, Mahmoud Raslan, frequentava e sosteneva le
frange terroristiche della fazione golpista. Celebre è un
suo selfie con i
membri dell'organizzazione «moderata» Harakat Nour al-Din al-Zenki, destinataria di aiuti e armi
statunitensi e responsabile, tra l'altro, della decapitazione di un ragazzino
palestinese. In una recente serie di interviste televisive il
padre di Omran ha denunciato l'operato dei «ribelli» e l'uso propagandistico e non autorizzato dell'immagine
di suo figlio. Durante e dopo il ricovero del bimbo avrebbe ricevuto offerte e pressioni per addossare la
responsabilità dell'incidente all'esercito regolare.
L'infanzia sofferente - vera, falsa o presunta - è un'arma di guerra non convenzionale spesso
utilizzata per sedare o esaltare le coscienze dell'opinione pubblica. In piena guerra del Golfo, nel 1990,
la quindicenne figlia dell'ambasciatore del Kuwait in USA si presentò in udienza alla Commissione
governativa americana per i diritti umani spacciandosi per un'infermiera pediatrica fuggita dal Kuwait
occupato. Lì raccontò piangendo di
avere visto i soldati iracheni prelevare i neonati prematuri dalle incubatrici di un ospedale e buttarli in
terra, lasciandoli morire. Era tutto falso, ma l'orrore suscitato dalla bufala servì a far digerire
all'Occidente l'ennesima avventura dell'Impero.
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Di smascheramenti come questi è piena la propaganda di guerra. Eppure vi si insiste. Perché? Perché funziona. Perché queste immagini soddisfano una sete pornografica di tragedie infantili, un voyeurismo sadosentimentale di bambini mutilati, sofferenti e defunti che non conosce declino di cui è bene indagare il meccanismo e gli scopi. Per difendersene.
La socializzazione del raccapriccio non è tecnicamente dissimile dall'orgia. Come nell'orgia, ci si concede nudi alla massa, le si consegna il proprio indicibile e inconfessabile sé per ricongiungersi al mucchio: qui con le proprie paure più profonde, l'istinto della maternità e dell'empatia, l'orrore anche fisico del dolore innocente. Aristotele vi avrebbe visto un esempio di catarsi tragica, dove la pubblica rappresentazione dei mali più estremi servirebbe a liberare la mente dalla loro ossessione (cfr. Diano 1964). Ma nel caso odierno la mimesi giornalistica pretende invece di riflettere l'attualità di persone ed eventi reali, non mitici né romanzeschi, producendo così un supplemento di effetti.
Il primo è che nel condividere la pena dell'infanzia violata in modo iconico e rituale - come è segnalato dall'uso di immagini-simbolo - si offre ai celebranti l'occasione di (ri)affermare il proprio primato morale, di (ri)scoprirsi «buoni», compassionevoli, umani ecc. Una riaffermazione tanto più urgente in quanto negata dai fatti. Le complicità dei governi e di buona parte del pubblico occidentali nelle stragi di adulti e bambini in Medio Oriente e altrove, così come nella sofferenza di adulti e bambini per le politiche austere che seminano miseria nel mondo sviluppato, o ancora nelle tragedie di un'immigrazione dissennatamente promossa, sono così macroscopiche da avere ormai sfiorato anche le coscienze più conformiste e distratte. Sicché la contrizione a comando serve a espiare forfettariamente il peccato. È l'inverso dei due minuti d'odio di Orwell: sono i due minuti d'amore con cui ci si illude di scontare le connivenze di ogni giorno.
Il secondo effetto è corollario del primo, ma scopre il fianco a un'insidia ancora peggiore. Per sentirsi
«buoni» (e non più opportunamente razionali, o sensati) occorre misurarsi con l'antagonismo dialettico dei
«cattivi». E per sentirsi umani bisogna postulare i disumani al loro massimo grado, quello cioè di
chi fa morire i più innocenti tra gli innocenti: i bambini. In questa dicotomia tutta letteraria è fin
troppo facile che si intrufoli chi vuole sdoganare la disumanità vera verso i propri, personalissimi,
nemici. Se Assad è colpevole di aver fatto soffrire il piccolo Omran, o gli «xenofobi» di aver fatto morire
il piccolo Alan, o i «no vax» di aver lasciato perire un piccolo infermo, nessun atto è troppo feroce per
castigare la loro ferocia. Non c'è dialogo né compromesso con chi viola l'infanzia, c'è solo la
guerra. Sicché per punire il-dittatore-che-ferisce-un-bimbo si acclama chi ne ha spenti a migliaia con un colpo di stato senza fine.
Poi ci sono, ovviamente, le regole del marketing. Le emozioni forti aiutano a vendere. Se il corpo
svestito di una donna promuove automobili, deodoranti e trapani a percussione, quello esanime di un bambino
conquista la curiosità del lettore. La tecnica è efficace purché si abbia cura di dosarla per non creare
assuefazione nel paziente - come è ad esempio il caso di certe organizzazioni umanitarie che mettono queste
immagini ovunque, riproducendole come un logo, un vessillo.
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Ma l'aspetto della vicenda che ci deve più preoccupare è un altro. È che, come suggeriscono gli esempi nella prima parte e quelli che seguiranno, il rinforzo retorico dell'infanzia tribolata si accompagna troppo spesso alla mendacità e/o distorsione dei messaggi a cui si attacca. Quasi da trarne una universale: ubi puer, ibi mendacium.
Se la violenza è l'argomento di chi non ha argomenti, quella di sbattere in faccia lo strazio dei minori è
una violenza al cubo, una shock doctrine dialettica. Perché non si limita a inibire l'esercizio della
ragione prendendo a pugni l'umanità di chi ascolta, ma quell'esercizio lo colpevolizza e lo
squalifica, ne fa un gesto indelicato di cui scusarsi. Chi pretendesse di superare l'urgenza della
compassione dovuta a una piccola vittima per disputarne la didascalia, immaginarne il contesto, interrogarsi
sulle cause e sulle eventuali falsificazioni che l'hanno resa tale, sarebbe un cinico senza cuore.
L'aggressione emotiva lascia così un cratere dove non si può né si deve pensare, un corridoio
blindato in cui le mistificazioni care all'aggressore transitano al riparo dalle cautele analitiche
dell'aggredito, lasciandolo indifeso. È, per certi versi, la traslazione dialettica di un crimine di guerra
già sanzionato dal diritto umanitario: l'uso di scudi umani, cioè di «person[e] protett[e]», «per
mettere, con la [loro] presenza, determinati punti o determinate regioni al sicuro dalle operazioni
militari» (IV Conv. di Ginevra, art. 28), essendo qui le «operazioni
militari» le
controargomentazioni e i dubbi sollevati da una narrazione («determinati punti o determinate regioni») che
va messa «al sicuro» dai critici.
Una strategia così vincente e di facile impiego - essendone l'unico requisito la spregiudicatezza di pervertire il rispetto dei piccoli ai propri estemporanei fini - non può che trovare vaste applicazioni, ben oltre la propaganda bellica. Osserviamone qualche esempio.
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Un noto politico ha recentemente rilanciato un classico: che il debito pubblico debba essere ridotto non
perché «ce lo chiede l'Europa», ma perché «ce lo chiedono i nostri figli». Il fortunato binomio
debito-figli centrava almeno due obiettivi: di traumatizzare i destinatari facendogli balenare l'immagine
dei propri affetti più cari oppressi dalla miseria e dall'usura, e di insinuare la degenerazione di chi, non
curandosi del debito sovrano, non si cura della prole.
Ma ubi puer, ibi mendacium. La prima falsificazione, la più grottesca, sta nell'ovvio fatto che nessun figlio ha mai chiesto ai propri genitori di «ridurre il debito pubblico». I figli ci chiedono cose più utili e intelligenti: un abbraccio, il tempo di giocare con loro, un giocattolo, una caramella, una vacanza, il motorino. Ci chiedono cioè le cose che desiderano e di cui hanno bisogno, non le invenzioni immateriali con cui ci nascondiamo la frustrazione dei desideri e dei bisogni - e quasi sempre anche dei diritti - di chi ha poco o nulla. Sicché, invece di trarre dai piccoli la lezione di un'economia fatta di beni e di benessere accessibili a tutti, gli si infila in bocca il gergo di una finanza che ha soggiogato quell'economia, per distruggerla.
Come negli esempi già portati, la falsa rappresentazione presidia la falsificazione e l'occultamento dei
fatti. Qui, per citarne solo alcuni, che il debito pubblico italiano è tra i più
sostenibili in Europa; che la sostenibilità di un debito è determinata,
appunto, non dal suo volume ma dal buon andamento dell'economia reale; che evidentemente a quel debito
corrispondono altrettanto ereditabili crediti privati; che i crediti deteriorati in cui sta sprofondando il
sistema bancario sono quelli concessi ai privati, non agli Stati; che ai
figli lasceremo le infrastrutture e i
servizi realizzati con la contrazione di quel debito. Eccetera. Ma soprattutto, che lo Stato non dovrebbe
mendicare a usura i quattrini da chi ne ha tanti, ma gestirne l'emissione e la circolazione
specialmente nell'interesse di chi ne ha pochi.
I temi dell'immigrazione sono un'altra miniera di reductiones ad pueros. Nel 2016 si è stimato che, tra gli stranieri entrati clandestinamente, i minori di 15 anni rappresentavano all'incirca l'1,4% del totale, mentre i minori di 8 anni erano solo lo 0,04%. Ciò nondimeno l'iconografia e la retorica degli sbarchi è tutta sbilanciata sull'infanzia. Chi ad esempio sollevasse dubbi sulle operazioni delle ONG che navigano tra la Sicilia e l'Africa, finirebbe schiacciato dalle descrizioni di bambini seminudi e assiderati, quando non affogati. Interdetto dal trauma tralascerebbe così di aggiungere che i suoi dubbi nascevano anche dalla speranza di evitare quelle tragedie.
Mentre infuriava il dibattito sullo ius soli, il diritto di acquisire la cittadinanza italiana per chi nasce in Italia, un noto quotidiano confezionò un filmato di diversi minuti in cui un'intervistatrice fuori campo si intratteneva con alcuni bambini stranieri di età compresa tra 5 e i 10 anni. Dopo averne spremuta la tenerezza con primissimi piani e domande su gusti, sogni e quotidianità di ciascuno, passava all'attacco con la domanda: «Ma lo sapete che lo Stato italiano non vi riconosce ancora come cittadini italiani, fino a diciott'anni?». Seguivano lunghe riprese sui volti ammutoliti dei pargoli che, riavutisi dal magone (o più verisimilmente dall'avere udito una parola di cui nessuno può conoscere il significato, a quell'età), rispondevano poi di sentirsi italiani, pur non essendolo. Il senso dell'operazione si chiariva definitivamente con l'ultimo titolo di coda: «Il diritto di essere italiani». Un diritto che non esiste, mentre si taceva che tutti i diritti veri e fondamentali dei bimbi italiani sono gli stessi di quelli stranieri. Quindi? Qual era lo scopo di quella pantomima? Quale che sia sia la risposta, l'esibizione iperglicemica dei piccoli volti serviva a rendere inopportuna la domanda.
Nel caso, già trattato su questo blog,
delle
vaccinazioni pediatriche, l'infanzia malata è già nella radice del tema, sicché è più difficile non
rappresentarne i dolori per documentare una tesi. Ma anche qui si sono toccati vertici da antologia, come
quando il Ministro della salute proclamò in televisione che a Londra nel 2013 erano morti 270 bambini a causa del
morbillo. E, con immutato fervore, un anno dopo ci aggiornava sulla strage dei piccoli londinesi che
anche nel 2014 mieteva «più di 200
bambini» morti della stessa malattia. Di fronte a tanto lutto nessuno osò farle notare che in tutta
l'Inghilterra, nel 2014, non vi fu alcun decesso collegato al morbillo (su un
totale di 130 casi), mentre nel 2013 ve ne fu uno (su 1843 casi), ma non era un bambino. In due anni, il ministro che oggi giura di rimettere la
pratica
vaccinale nell'alveo del rigore scientifico con la forza della legge, aveva esagerato i dati del
quarantaseimilanovecento per cento. Ma attenzione: quell'esercito inventato di cadaveri non era un
esercito di cadaveri qualsiasi: erano bambini.
Ora sappiamo perché.
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