Questo articolo è uscito, in versione leggermente ridotta, sul quotidiano La Verità dell'8
novenbre 2019.
Una cara amica mi segnala una petizione promossa da un gruppo di ambientalisti che sta avendo ampia eco sui quotidiani nazionali, in cui si chiede ai nostri mezzi di informazione di non dare più «spazio a posizioni antiscientifiche, basate su opinioni di singoli e non supportate da ricerche validate dalla comunità scientifica» in tema di cambiamento climatico, sull’esempio «della BBC, del Guardian e di Le Monde». Secondo i promotori occorre porre fine a «una insensata par condicio» nel cui nome si starebbe dando «pari rilevanza a scienziati esperti della materia e a incompetenti che propagandano tesi negazioniste sul clima» perché, spiegano, «non c’è in democrazia il diritto a dare spazio alle fake news».
Da un editoriale di Annalisa Corrado, una delle promotrici, apprendo che l'iniziativa è già criticata su alcuni giornali. Quelle critiche commettono però a mio avviso un errore, di entrare troppo nel merito della questione dibattuta e di tralasciare in tutto o in parte il metodo sotteso. In quanto alla questione trattata, da non specialista posso solo registrare che diversamente da ciò che si legge nella petizione la «comunità scientifica internazionale» non pare «ormai unanime» nel sostenere la tesi del cambiamento climatico antropogenico, se è vero che solo il mese scorso cinquecento tra fisici, geofisici, meteorologi e altri scienziati provenienti dalle accademie di tutto il mondo hanno indirizzato al segretario generale delle Nazioni Unite una «Dichiarazione europea sul clima» in cui si contesta l'esistenza di una «emergenza climatica» causata dall'uomo e si deplora la politicizzazione del dibattito scaturito.
Da cittadino mi preoccupa invece l'idea che le alterazioni dell'ambiente in cui viviamo e, più in generale,
la diffusione di teorie infondate in ogni settore possano colpire in modo duro o irreversibile il benessere
e la salute dei popoli. Ma proprio perché privo degli strumenti culturali per decifrare e scongiurare questi
rischi, ritengo che si debbano garantire agli esponenti delle comunità scientifiche di riferimento non solo
tutte le risorse necessarie per studiare e risolvere i problemi, ma anche l'indispensabile diritto di
esporre le proprie tesi e di confrontarsi in ogni sede, anche coinvolgendo l'opinione pubblica e i decisori
politici. Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche e i benefici pratici che ne sono derivati per l'uomo non
sono mai - ripeto, mai - avvenuti soffocando, nascondendo o condannando le voci dissonanti rispetto
alla posizione di volta in volta dominante. Si può anzi dire che quasi tutte le nozioni e le pratiche
scientifiche oggi riconosciute siano state, in qualche momento della storia, eterodosse perché nuove e non
suffragate dalle esperienze successive. La bontà di una teoria scientifica si evince dai risultati, non
dall'autorità o dal (presunto) consenso di chi la sostiene, e poiché il risultato scientifico è sempre
revisionabile, lottare contro il «revisionismo» equivale a lottare contro la scienza in sé.
La saggezza dei latini ci ha lasciato in eredità una massima: ubi maior minor cessat. L'eventuale urgenza di contrastare le mutazioni del clima o qualsiasi altra minaccia non può giustificare la repressione della libertà di esercitare e comunicare i risultati della ricerca, perché quella libertà costituisce la premessa irrinunciabile per indagare a monte i problemi. Non si può, nel nome di un'urgenza particolare, crearne una più generale e radicale. Il problema della petizione per il «clima» cessa dunque di essere la maggiore o minore fondatezza del pericolo che vi si denuncia, che diventa anzi irrilevante (minor cessat), e si identifica tutto con l'enormità di mettere in sordina coloro che se ne dovrebbero occupare con onestà e rigore, senza condizionamenti di sorta (ubi maior). La prospettiva di una comunità scientifica autorizzata a divulgare solo i risultati graditi a un establishment esterno - come appunto le redazioni dei grandi mezzi di informazione - è un pericolo di molti ordini superiore all'eventuale innalzamento della temperatura del globo. Perché negherebbe alla radice la possibilità di occuparsene in maniera autenticamente scientifica.
Nella querelle sorta a margine di questa iniziativa si è citato molto opportunamente l'esempio dell'obbligo di vaccinazione di massa, che ho trattato nel mio ultimo libro. Lì aprivo l'analisi con una lunga antologia di personalità e istituzioni mediche che, distinguendosi da ciò che sui giornali si giura essere un «consenso» senza eccezioni, mettono in discussione l'opportunità dello strumento coercitivo o di specifici aspetti della pratica vaccinale in uso, o di alcuni vaccini. Procedevo poi a illustrare i prevedibili rischi di avere censurato o sanzionato i sanitari «dissidenti» creando un clima di intimidazione a detrimento della libertà di esercizio della professione e dello sviluppo di conoscenze migliori. Ad oggi questi rischi si sono già tradotti in un crollo della fiducia della popolazione nella sicurezza delle vaccinazioni, e di conseguenza anche dei professionisti e delle istituzioni che le promuovono subordinandovi i diritti delle famiglie (ne ho scritto qui). Ma è facile prevedere che una gestione così «militarizzata» produrrà danni ancora più gravi, da un lato approfondendo la diffidenza dei cittadini verso chi li cura, dall'altro spingendo sempre più pressantemente la ricerca a produrre solo risultati compatibili con la «verità di Stato». Anche in questo caso il problema smette di essere quello dichiarato dei vaccini (minor cessat) e si colloca nell'ordine superiore del metodo, di una medicina condizionata e imbavagliata (ubi maior).
Se la petizione sui cambiamenti climatici avesse chiesto alle redazioni di elevare il livello culturale degli interlocutori sarei stato tra i primi a sottoscriverla, perché in effetti i dibattiti sono spesso mal rappresentati al pubblico volendo concedere più alle esigenze di comunicazione e spettacolarizzazione che alla competenza, a parità di tesi (il riferimento a una giovanissima svedese non è del tutto casuale). Ma qui si chiede una cosa molto diversa, una cosa che non ha nulla a che fare con il clima, né con la scienza. Qui si chiede un metodo: quello di imporre una tesi - poco importa quale - non già informando i cittadini, ma privandoli delle informazioni prodotte da una parte della comunità degli studiosi, i quali si troverebbero a loro volta privati della possibilità di fornire al pubblico gli elementi necessari per operare democraticamente una scelta.
La fallacia di chiamare in causa un potere, politico o mediatico, per dirimere le controversie scientifiche e decidere quali siano le «fake news» da silenziare è resa evidente dal fatto che il potere rappresenta per definizione gli interessi del più forte. La scienza diventerebbe così l'ancella dei forti, non delle verità, per quanto perfettibili e provvisorie, di cui abbiamo bisogno. L'iniziativa su cui ci siamo soffermati non è purtroppo che l'ennesima applicazione di questa fallacia, che in gran parte del pubblico e della classe politica è già diventata un sistema di pensiero. Per denunciare questa tentazione così diffusa ho contribuito quest'anno a fondare associazione Eunoè, il cui «Manifesto per la scienza» rappresenta un tentativo di restituire dignità alla professione scientifica e alla politica che deve sì servirsi degli scienziati, ma non asservirsi ad essi, né specialmente renderli servi.
Leave a comment