L'homme moderne, au lieu de chercher à s'élever à la vérité, prétend la faire descendre à son niveau.
René Guénon
Lebensborn A/R
È certo una buffa coincidenza che a tirar fuori dalla scatola degli orrori storici l'eugenetica, pseudoscienza che postula un nesso tra selezione genetica e progresso sociale, sia un signore che di nome fa Eugenio. Così scriveva su L'Espresso il 7 agosto scorso:
Si profila come fenomeno positivo, il meticciato, la tendenza alla nascita di un popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media, un sangue integrato. Questo è un futuro che dovrà realizzarsi entro due o tre generazioni e che va politicamente effettuato dall’Europa. E questo deve essere il compito della sinistra europea e in particolare di quella italiana
Il tema non gli è nuovo. A sentir lui, di «meticciato» avrebbe già discusso
l'anno scorso nientemeno che con il
Santo Padre, ricevendone la seguente previsione: «dopo due, tre, quattro generazioni, quei popoli si
integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto». Dopo una seconda
udienza nell'estate di quest'anno, ci assicurava che:
La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura.
Manca giusto dire che rende il pelo più lucido.
Non è invece una coincidenza, né deve più stupire, che questi manifesti zootecnici appaiano disinvolti sul principale quotidiano nazionale di centrosinistra e che si auspichi di affidarne la realizzazione alla odierna «sinistra europea e in particolare [a] quella italiana». Chi si raffigura portatore di valori e missioni non negoziabili (come è segnalato dall'arruolamento, ci auguriamo coatto, della massima autorità religiosa) finisce nel campo comune ai totalitarismi di ogni colore, quello in cui le comunità umane non sono più destinatarie e ispiratrici, bensì strumenti, di un'idea politica. Anzi, non sono più nemmeno più umane se è lecito stiparle, trasferirle e ibridarle nei recinti da monta come le mandrie.
Sull'Huffington Post Luca Steinmann ricostruisce il sostrato ideologico di Jugend Rettet, la ONG recentemente incriminata per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. I suoi attivisti, «giovani figli delle classi sociali più abbienti della Germania» che si percepiscono come «figli dei crimini passati commessi in nome della germanicità», sarebbero animati dalla
volontà di porre fine al costante e opprimente paragone con il passato nazionalsocialista attraverso lo scioglimento delle singole identità particolari, a partire dalla propria... I migranti, in questi termini, rivestono [la] funzione... di contribuire con la loro presenza in Europa alla creazione di una nuova società in cui l'integrazione sia reciproca. All'interno di essa i popoli europei potranno finalmente sciogliere i propri riferimenti nazionali [per] entrare a far parte di un unico mondo globalizzato senza limiti di confini, di differenze nazionali e di retaggi religiosi e culturali.
Il pattern è il medesimo. Se la ricostruzione di Steinmann è corretta, c'è ovviamente da chiedersi come si possano espiare i crimini di chi voleva forzare la selezione di una razza pura... forzando la selezione di una razza mista. Che cosa distinguerebbe i due obiettivi? Tecnicamente nulla, tanto più che in entrambi i casi si lasciano sul campo morti, feriti e stravolgimenti di popoli. E che la cancellazione deliberata di un gruppo etnico o nazionale si chiama ancora genocidio. In quanto all'esecuzione va riconosciuto che i nonni dei giovani rettende avevano perseguito l'obiettivo con più determinazione (Progetto Lebensborn). Oggi ci si limita a sversare nel continente bastimenti di maschi neri in età fertile. E poi? Come si pensa di ottenere un «popolo unico» dal «sangue integrato» nel giro di «due o tre generazioni»? Basterebbe, da solo, il mitico big bamboo a trascinare in massa le europee nei talami dei nuovi riproduttori? O più realisticamente servirebbero argomenti più coercitivi e discriminatori per onorare quella scadenza? Se sì, preferiamo non conoscerli.
Ma fingiamo almeno di crederci. Di credere che tutto ciò sia possibile, anzi auspicabile, e che il fine
giustifichi i mezzi. Che in un Occidente minacciato dalla scomparsa della classe media la «nascita di un
popolo unico, che ha una ricchezza media, una cultura media» riporterebbe un po' di equità.
Innanzitutto andrebbe capito dove si collocherebbe quella media. Se l'aritmetica non è una disciplina di destra, non si può combattere la povertà importando poveri, come non si può alzare la media di un insieme di numeri aggiungendovi numeri inferiori alla media. Peccato. Fingiamo però di accettare anche questo: di impoverirci per amore di uguaglianza, per crescere, prima o poi, tutti insieme armoniosamente. Ma è mai successo? Che importando masse etnicamente e culturalmente lontane «dopo due, tre, quattro generazioni, [i] popoli si integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto»? Vediamo.
***
L'esportazione dei popoli africani non è una cosa nuova. A partire dal XVII sec. oltre 10 milioni di africani furono deportati nel Nuovo Mondo. Come oggi si naufraga nel Mediterraneo, allora si naufragava nell'Atlantico. Come oggi si muore viaggiando nell'Africa subsahariana verso la costa, allora si moriva viaggiando nell'Africa occidentale verso la costa. E come oggi in Libia, anche allora i trafficanti locali infliggevano ai deportandi aggressioni, torture, segregazione e ricatti. I nuovi arrivati finivano nei campi di tabacco, canna da zucchero e cotone, come oggi in quelli di pomodori e limoni. Ed erano merce di un padrone, come spesso lo sono oggi di caporali, papponi e altri sfruttatori.
Complessivamente, gli antenati africani insediatisi negli Stati Uniti d'America sono stati 400.000-450.000
(in Italia ne sono sbarcati 1 milione negli ultimi dieci anni, di cui la metà solo negli ultimi tre).
Quando fu firmata la dichiarazione di indipendenza (1776), i neri erano circa 700.000: quasi un quinto
della popolazione americana di allora. Quando fu abolita la schiavitù (1865) erano diventati quasi 5
milioni, pari al 13% della popolazione, mantenendosi su questa percentuale fino ai nostri giorni.
Sono trascorsi secoli dallo sbarco dei primi africani e 150 anni dalla loro liberazione. Già il fatto che da allora la percentuale di popolazione nera sia rimasta invariata la dice lunga sulla plausibilità di sintetizzare un popolo dal «sangue integrato» per mera giustapposizione. In quanto all'equità, osserviamo qualche numero:

Eccola la «ricchezza media» prodotta da secoli di (non) ibridazione: una concentrazione nelle mani dei bianchi di patrimoni che mediamente superano di 13 (tredici) volte quelli dei neri. E la situazione non sembra migliorare. Oggi, ad esempio, il gap salariale tra afroamericani e bianchi, in un contesto deflativo generalizzato, è più ampio rispetto a quarant'anni fa. Ma non solo. I discendenti degli ex schiavi africani:
- rappresentano la maggioranza relativa della popolazione carceraria. La
probabilità che un
afroamericano finisca in carcere è 5 volte più alta di quella di un bianco.
In 11 stati, un adulto nero su 20 è in
prigione, in Oklahoma 1 su 15. Il gap è in continuo aumento;
- subiscono relativamente più arresti per quasi tutti i tipi di crimine. Ogni anno più della metà degli arrestati per omicidio è di colore, con una probabilità di uccidere 6-7 volte più alta di un bianco (ispanici inclusi). A New York, nel 2014, un afroamericano aveva 31 volte la probabilità di un bianco di essere arrestato (quasi 100 volte nel caso di sparatorie);
- subiscono anche relativamente più crimini, sebbene in percentuali decisamente
più ridotte (crimini violenti: +13% vs. bianchi, +1,2% vs. ispanici;
crimini contro la proprietà: +24% vs. bianchi, +16% vs. ispanici);
- a parità di crimini e di circostanze ricevono sentenze mediamente più dure dei bianchi, in certi casi anche doppie o triple.
***
La storia americana ci suggerisce alcune lezioni. Innanzitutto, che l'introduzione di masse africane in un contesto numericamente, economicamente e politicamente dominato dall'etnia europea non produce in sé alcun «meticciato» o amalgama genetico-culturale omogeneo, se non forse nel lunghissimo termine (realisticamente millenni). L'effettivo sradicamento di quelle masse ne ha sì cancellato la memoria delle origini integrandole senza residui nella compagine identitaria del paese di destinazione (negli Stati Uniti gli afroamericani non sono mai stati «stranieri»), ma non la specificità etnica, che ha resistito nei secoli come (auto)rappresentazione di una specificità sociale fortemente sbilanciata verso i gradini più bassi della gerarchia delle classi. La discriminante etnica si è insomma dimostrata ben più pervicace del retaggio culturale e religioso, con buona pace non solo di chi parla di «scontro di civiltà» ma anche e soprattutto di chi vede nella rimozione o attenuazione di quel retaggio la condizione sufficiente dell'integrazione tra i popoli. Nel solco di quella discriminante si è anzi tracciata una nuova identità sicuramente inedita e «global» - quella afroamericana - ma non per questo meno problematica e scevra da conflitti.
Negli USA la segregazione razziale è stata rimossa dalle leggi, dal discorso pubblico e persino dalle
coscienze degli americani, che infatti si percepiscono tra i popoli meno
razzisti del mondo. Ma come si è visto, non dai
fatti. Da un lato questa battaglia cosmetica ha fatto leva sugli strascichi psicologici di una lunga
stagione di violenza e sulla sua storiografia: le angherie degli schiavisti, una guerra civile, le
esecuzioni sommarie, le campagne dei suprematisti e le race riots delle metropoli. La memoria
istituzionalizzata di quegli eventi ha alimentato una censura fondata sulla colpa dei padri - quindi sulla
paura - che però manca nelle coscienze degli europei, sicché non stupisce che nel nostro continente ci si
appresti a rivivere quella stagione, ad esempio qui, qui, qui o qui.
La vicenda degli Stati Uniti d'America fondati sulla commistione irrisolta di africani ed europei, la
stessa su cui si vogliono fondare oggi gli Stati Uniti d'Europa, è un libro aperto di ciò che ci
aspetta. Se non si fermano i trasferimenti, il meno peggio è che l'inevitabile transizione violenta duri
poco, non mieta troppe vittime e soprattutto non fornisca il pretesto per ridurre ulteriormente il perimetro
della libertà di espressione e di azione, se non della democrazia. Dopo la conta dei morti si finirebbe per
abbracciare il compromesso multietnico americano, quello di una discriminazione praticata ma non dichiarata,
accettabile ma non confessabile, istituzionalizzando il ruolo di sottoproletariato perennemente emarginato e
indigente, e perciò più esposto alla devianza, in cui già languono tanti nuovi arrivati dall'Africa. Questo
esito, lo ripetiamo, è il meno drammatico ma non il più scontato, e può facilmente degenerare in qualcosa
di peggio. Un ostacolo importante sulla via di questa integrazione rigorosamente nominale è, ad
esempio, il fatto che in Europa gli stranieri sono anche amministrativamente tali. Da qui l'urgenza
altrimenti inspiegabile di accelerare l'accesso alla cittadinanza, che «deve essere il compito della
sinistra... in particolare di quella italiana».
Tutto ciò è naturalmente lontano dal sogno (o incubo) di un socialismo anche genetico, di una razza neutra che non avrebbe più pretesti per accapigliarsi, ma forse non troppo lontano dagli obiettivi dei più accorti divulgatori di quel sogno. In quanto agli altri, quelli che ci credono davvero, osserviamo in essi i vizi classici del pensiero progressista: la hýbris di muovere masse e sedimenti plurimillenari nell'aspettativa che storia e natura si pieghino alle proprie illuminazioni da dopopranzo; l'inconsequenzialità di anteporre il carro di un mondo sognato, ai buoi delle azioni che rendano quel mondo possibile e sostenibile; la proiezione ossessiva verso un futuro che, poiché non ancora realizzato, può accomodare i propri desideri più della coriacea immutabilità del passato; il rifiuto di voltarsi indietro per accertarsi se casomai quel futuro non sia la replica di un passato e di un presente da evitare, o se quelle illuminazioni non siano la cosmesi di moventi già sanzionati dalla storia.
Ne scriveremo nel prossimo capitolo.
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