(questo articolo è disponibile anche in versione spagnola)
Apprendo da un amico sacerdote che il pellegrinaggio parrocchiale di quest'anno nei luoghi sacri della Polonia mariana toccherà anche l'ex campo di concentramento di Auschwitz, con lo scopo di "promuovere una riflessione sul male".
È cosa buona onorare e compiangere le vittime innocenti di un crimine. Specialmente se - come nel caso del nazismo - si tratta di un crimine a cui il nostro Paese ha preso attivamente parte sostenendone gli autori e condividendone l'ideologia sottesa. Tra il 1933 e il 1945 il nazifascismo ha lasciato sul campo, tra persecuzioni e guerra, oltre 50 milioni di vittime, per la maggior parte civili.
Ciò che oggi più oggi inquieta, oltre alle dimensioni dell'eccidio, è il fatto che questa ideologia di morte sia stata appoggiata o tollerata dalle popolazioni italiane, tedesche e collaborazioniste dell'epoca. Che la militarizzazione e le persecuzioni siano avvenute sotto gli occhi e con la collaborazione di una società acquiescente, quando non acclamante. E che soprattutto per condannare quegli eccidi con commemorazioni, pellegrinaggi e "riflessioni sul male" si sia diligentemente atteso che i loro autori fossero militarmente sconfitti: quando, cioè, era ormai troppo tardi. C'è qualcosa di deprimente, oltreché di ipocrita e vigliacco, nel denunciare solo i misfatti dei perdenti, nell'accanirsi sui cadaveri freddi degli aguzzini quando i morti non possono più essere salvati, nel riconoscere il male solo dopo che è stato proclamato tale da chi ha vinto.
E c'è anche qualcosa di molto pericoloso. Perché la denuncia dei crimini collettivi si riduce così a un rito palingenetico consolatorio e socialmente codificato: un rito che, nel suo conformismo, ripropone gli stessi identici meccanismi di adesione di massa che avevano caratterizzato le deprecate ideologie di guerra e di sterminio, preparando così la strada al loro ritorno.
E infatti, mentre scolaresche e parrocchie si purificano spendendo qualche lacrima sul passato inemendabile di Auschwitz (o, per i più ecumenici, dei gulag sovietici), le società e i governi che pretendono di fondarsi sul rigetto di quel passato producono o appoggiano eccidi di civili e genocidi, aprono campi di concentramento e centri di tortura, occupano, bombardano, saccheggiano, stuprano, destabilizzano e mentono ai propri cittadini. Il tutto, anche oggi, nella sostanziale acquiescenza dei più, perché i crimini dei vincenti, degli alleati, dei "buoni" - i nazisti ieri, l'occidente atlantista oggi - sono incidenti di un percorso sostanzialmente virtuoso, quando non fantasie complottiste.
Ma la storia sa anche essere ironica. E la prova della natura intrinsecamente tardiva (e quindi inutile) dell'antifascismo di massa ce la serve su un piatto d'argento con la recente "crisi ucraina", dove le violenze di memoria nazifascista tornano in scena non solo nella sostanza ma persino nei simboli, creando un cortocircuito storico che ci riporta anche formalmente a un passato che ci vantiamo di avere sconfitto.
Leggi la seconda parte.
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