Quo vadimus?

21 marzo, 2016 | 25 commenti

Ieri sera ho finalmente avuto anch'io l'occasione di vedere Quo vado di Checco Zalone. Il film mi era già stato minuziosamente raccontato dal solito Vincenzo e ne avevo letto le recensioni impietose di alcuni amici (ad esempio qui), secondo i quali si tratterebbe di un esercizio di autorazzismo e di incitazione all'odio di classe verso i lavoratori del settore pubblico. Ma Vincenzo, pur da insegnante statale e con moglie impiegata in Provincia, aveva invece trovato la pellicola gradevole e per nulla offensiva verso la sua categoria. Decisi allora di sospendere il giudizio in attesa di prenderne personalmente visione, cioè fino ad oggi.

La storia è quella di un funzionario provinciale del sud Italia che, per evitare un licenziamento con buono uscita causa spending review, accetta di farsi trasferire nelle sedi più disagiate e lontane e di svolgere mansioni anche pericolose, nella ferrea volontà di non abbandonare i vantaggi di un "posto fisso" sacralizzato e assurto a missione di vita. Nel corso delle tante prove a cui è sadicamente sottoposto da una dirigente ministeriale pronta a tutto pur di fargli rassegnare le dimissioni, il protagonista trova l'amore e, per amore, decide alla fine di rinunciare alla sua battaglia - che nel frattempo aveva comunque vinto riprendendo possesso del suo vecchio ufficio - e di stabilirsi in Africa con la sua nuova famiglia.

La vicenda, paradossale come ha da essere un racconto didascalico ad absurdum, è quella di un romanzo di formazione in cui il protagonista diventa adulto affrontando le peripezie dell'intreccio fino ad approdare a una vita più consapevole e ricca. Per questo più che l'autorazzismo - che derubricherei a collaterale autoironia, anche considerando i precedenti dell'autore - ciò che mi è sembrato sostanziare il messaggio del film è una ben più angosciante promozione della precarietà e dello sradicamento come condizioni non solo inevitabili, ma anche desiderabili in quanto vie alla crescita interiore, sociale ed affettiva.

All'inizio del film il non più giovane Checco è un bamboccione di 38 anni viziato ed egoista che vive con i genitori, coltiva una storia d'amore senza amore, si reca in ufficio poco prima di mezzogiorno per svolgere un lavoro presumibilmente poco qualificato e difende con le unghie il piccolo mondo dorato garantitogli dal "posto fisso" in Provincia. Vive così, senza pensieri né progetti, avendo come massimo problema una quaglia cucinata male dalla fidanzata o non frollata a dovere dal cacciatore che gliela dona per ingraziarsi il rilascio di una concessione. L'irrompere dell'antagonista, l'efficientissima e arrivista dottoressa Sironi (si noti il cognome lombardo), che lo spedisce in mezzo mondo per indurlo a dimettersi, porta il provinciale Checco a confrontarsi per la prima volta con la complessità e i problemi di realtà a lui sconosciute: la persecuzione dei No TAV, le gabbie degli immigrati a Lampedusa, il surriscaldamento e l'inquinamento dei poli, l'ordinata ma sofferente civiltà scandinava, la piaga della 'ndrangheta, la miseria del continente africano.

Per quanto sempre ostinatamente aggrappato al "posto fisso", Checco si adatta velocemente a ogni nuova esperienza e ne trae occasione per abbracciare culture e valori diversi dai suoi, come quando, nella breve estate norvegese di Bergen, si identifica comicamente con la cultura locale imparandone la lingua e le usanze e schifando, da buon italiano all'estero, tutto ciò che è italiano. In questo percorso di sprovincializzazione a tappe forzate è affiancato da Valeria (pessimamente interpretata da Eleonora Giovanardi), una scienziata di cui si è innamorato e che rappresenta il personaggio più emblematico e disumano della storia.

Disumano perché pretenziosamente ultraterreno e perfetto, mediatrix ac via salutis nel percorso di redenzione (?) del protagonista. Valeria è infatti la negazione vivente di ogni riferimento antropologico e identitario, idolo caricaturale di una vita fluida senza radici né certezze, che solo l'inganno della fiction può preservare dalla disperazione e dal caos. Al contrario di Checco, la giovane ricercatrice sembra non avere né genitori né patria. Vive con tre figli ai quali parla in inglese, messi al mondo rispettivamente con un africano, un filippino e un norvegese. Quest'ultimo gira nudo per casa davanti ai bambini in attesa di celebrare di lì a poco un matrimonio omosessuale con un uomo di colore. La stessa Valeria, si scopre, ha avuto in passato una storia lesbica e forse addirittura una zoofila. Momentaneamente lavora al CNR di Ny-Ålesund ma in passato ha girato il mondo - e gli uomini - e non ci pensa due volte quando si tratta di lasciare il posto da ricercatrice per seguire l'amato Checco nel cuore della Calabria. Schifando gli inviti alla cautela dei suoi colleghi, qui si scoprirà imprenditrice fondando uno zoo didattico con gli animali selvatici sequestrati ai boss. Quando poi l'iniziativa naufraga per il venir meno dei fondi e dei patrocini - pare immaginarsi su pressioni della 'ndrangheta - eccola di nuovo in pista: impacchetta le sue cose e i suoi apolidi bimbi (che, ça va sans dire, non si erano mai integrati nella xenofoba provincia calabrese) e si trasferisce in Africa.

A questo punto Valeria chiede a Checco di rinunciare al "posto fisso" per seguirla, ponendo un dilemma esistenziale dove, in un incredibile rovesciamento che tradisce il senso politicamente perverso del racconto, la solidità della famiglia è messa in concorrenza con la sicurezza economica e lavorativa dei suoi membri. Checco rifiuta, ma quando scopre che Valeria sta per mettere al mondo la figlia concepita con lui, la raggiunge in Africa dove ancora, per la seconda volta, gli è chiesto di rinunciare alla certezza dell'impiego pubblico per congiungersi con la ritrovata compagna. In una scena finale assurda nella sua apparente catarsi, Checco finirà per firmare le dimissioni tra i sospiri di sollievo della dottoressa Sironi, di Valeria e finanche dei figli adottivi (e immaginiamo anche del pubblico), con un gesto che nell'economia della narrazione vuole essere non solo coraggioso e liberatorio, ma anche suggello di un sofferto percorso di crescita interiore: dall'egoismo all'amore, dalla paura all'intraprendenza, dalla provincia al mondo.

Come ho anticipato, pur riconoscendovi alcune poco gradevoli concessioni ai luoghi comuni dell'antitalianità e del supposto parassitismo statale, trovo che la cifra più inquietante del film di Zalone risieda appunto in questa glorificazione della precarietà in quanto via all'emancipazione da una condizione - quella della "Prima Repubblica" - che si presume viziata da egoismo, chiusura all'altro e gretto attaccamento a privilegi insostenibili e osceni in un mondo che soffre. Al milionario Zalone sfugge comprensibilmente che quelli che lui chiama "privilegi", per quanto li si possa rappresentare grottescamente e pur tra gli abusi che certamente esistono, sono ciò che permettono a milioni di persone di vivere, specialmente in un paese dove la desertificazione di imprese e posti di lavoro galoppa.

Confondere lo stipendio con il "privilegio" e il diritto con il suo eventuale abuso è un caso di falsa sineddoche, dove un dettaglio di costume è assurto a rappresentare il tutto. La certezza di uno stipendio fisso - che è poi la normale contropartita di un lavoro fisso, cioè di una continuità che il lavoratore garantisce al proprio datore - non è soltanto una rete di protezione contro la miseria, ma anche un fattore di sviluppo economico. È ciò che permette di onorare le rate di un mutuo, di acquistare un'automobile e di pagare le bollette e le assicurazioni a chi non dispone di un patrimonio sufficientemente ampio a cui attingere, contribuendo così alla prosperità di quei mercati.

In quanto al cosmopolitismo del self-made man a cui Zalone ammicca nel suo film, è una cosa per ricchi contrabbandata ai poveri. Se per il ricco il mondo è un bazar di opportunità dove investire e intraprendere, per il povero è un territorio sconosciuto dove elemosinare la sopravvivenza che gli è negata in patria, in balìa di chi ne sa sfruttare i talenti e in concorrenza con le popolazioni locali. È vieppiù triste che una retorica così nauseabonda sia espressa dal pugliese Zalone, il cui successo deve avergli fatto dimenticare l'epopea dei tanti meridionali costretti a lasciare quelle terre bellissime per impiegarsi nelle miniere e nelle fabbriche di altri paesi, contribuendo loro malgrado all'abbandono e al declino dei luoghi di origine. Una storia vera e quindi ben diversa dalla fiabesca intraprendenza dei suoi due protagonisti, che ci si vorrebbe far credere baciati dal successo perché ottimisti, incoscienti e sempre pronti a imbarcarsi verso nuove avventure.

Non contento di avere insultato la dignità di un lavoro garantito secondo Costituzione, Zalone sembra poi prendersela con la famiglia e la comunità locale, che nel film diventano luoghi simbolo di un tradizionalismo soffocante e senza sbocchi. A queste prigioni immaginarie si contrappone la figura di Valeria, eroina promiscua senza radici né identità, maschera liquida che abita ovunque nel mondo e quindi in nessun luogo. Anche in questo caso si dimentica - o si vuole dimenticare - l'importanza dei legami famigliari e sociali non solo in quanto presidi di solidarietà, ma anche come luoghi di identificazione e cultura.

Ma forse il messaggio più ripugnante del film è anche quello apparentemente più positivo. Come ultimo atto della vicenda narrata, ma primo della sua nuova vita, l'ex impiegato Checco devolve una grossa parte della sua liquidazione per l'acquisto di farmaci da inviare a un disastrato ospedale africano. Il gesto dovrebbe segnare il passaggio da una "vita misera spesa a difendere i [propri] privilegi" (nelle parole messe in bocca allo sciamano che raccoglie la confessione di Checco) a una ritrovata generosità e attenzione all'altro che finisce per contagiare persino la gelida Sironi. Il che suggerisce, in modo niente affatto velato, che nella difesa del "privilegio" l'essere umano si chiude a riccio escludendo dal suo orizzonte non solo gli affetti (Valeria) ma anche la sofferenza di chi non ne è partecipe. Il messaggio che ne risulta è rivoltante per quanto antico: che cioè privandoci della tranquillità economica ci scopriremmo più vicini a chi soffre, e pertanto più generosi.

Il film di Checco Zalone non mi ha fatto ridere né sorridere perché - fosse anche per un semplice caso di conformismo intellettuale - cavalca senza scrupoli le retoriche di distruzione della residua dignità economica, lavorativa e persino culturale della nostra classe media. Nel predicare la precarietà come opportunità e lo sradicamento come maturità il film brandisce un miraggio a cui fin troppe persone stanno già abboccando, consegnando i propri diritti in cambio di una promessa evanescente come lo è appunto una favola cinematografica. All'assunto - falso - che le tutele del lavoro dipendente avrebbero prodotto la recessione economica presente ("ed i debiti (pubblici) s’ammucchiavano come i conigli tanto poi eran cazzi dei nostri figli" canta l'economista di Capurso), Zalone aggiunge l'assunto - ancora più falso - che le stesse tutele ci renderebbero moralmente peggiori. E che pertanto dobbiamo disfarcene. A tutto vantaggio - ma questo Checco non lo canta - di chi otterrà lo stesso prodotto con minor costo e ci ricollocherà come merci laddove ve ne fosse bisogno nel mondo.

Personalmente spero che Checco Zalone e i suoi autori siano abbastanza ricchi da non essere stati pagati per produrre un'opera di così subdola propaganda delle politiche di precarizzazione e impoverimento in atto. Spero, e credo, sia solo uno dei tanti casi recenti di ordinaria stupidità, anche da parte di chi guardandolo ha riso invece di riconoscervi la propria disgrazia.

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gianni pinelli 23 marzo, 2016 10:44

Analisi perfetta di un film che non a caso è piaciuto a tutti (critica e pubblico di tutte le estrazioni sociali), proprio perchè autentico manifesto della nuova Italia multietnica e precaria, in cui percepire uno stipendio è un privilegio, e lo stato sociale è un relitto del passato. Un'Italia in cui, come ci ricorda spesso la presidente Boldrini, presto lo stile di vita dei "migranti" sarà anche il nostro. Beninteso, del 99% degli italiani, cui certo non appartiene la presidente della Camera, nè la maggior parte degli editorialisti che quotidianamente ci infliggono lezioni sulla necessità di adeguarsi ai dogmi neoliberisti del mercato e della competitività. Tornando a Zalone, si potrebbe proporre al PD di adottare come suo inno la canzone che chiude il film ("La prima Repubblica non si scorda mai"), un vero e proprio manifesto in cui dirigenti e militanti piddini - compresi quelli della cosiddetta sinistra - possono riconoscersi in pieno, carica com'è di impulsi autorazzisti, mentre tratteggia la squallida caricatura di un periodo in cui il nostro paese - pur con tutti i limiti e le colpe della sua classe dirigente - era costantemente cresciuto in termini di sviluppo, benessere, diritti sociali, fino a raggiungere il quinto posto fra le economie mondiali. Ma, appunto, il benessere diffuso e i diritti sociali sono proprio le cose che i piddini detestano.

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The Max 24 marzo, 2016 16:12

@gianni pinelli

Non ho visto il film, ora mi è venuta curiosità.

Purtroppo al pubblico è piaciuto perchè indottrinato. E' stato fatto credere che la crisi e la globalizzazione sono caduti dal cielo e sono inevitabili, quindi ci si può solo adattare e non opporre.

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Joel Samuele Beaumont 22 marzo, 2016 17:54

Segnalo a tal proposito anche un film con Raoul Bova di cui trovate una breve descrizione al link:

https://it.wikipedia.org/wiki/Nessuno_mi_può_giudicare_(film_2011)

Quindi niente di nuovo all'orizzonte, per quanto riguarda l'autorazzismo.

In questa storia (Nessuno mi può giudicare), la protagonista femminile, da moglie di un imprenditore italiano, pieno di debiti, si ritrova vedova e costretta dalle circostanze a prostituirsi per ripagare i debiti del defunto marito.

Il film suggerisce di "non arrendersi al cambiamento", dove la protagonista alla fine del film si ritroverà a lavorare in un ristorante cinese. Il tutto in un contesto dove non si vede che la globalizzazione sia una cosa disastrosa, anche per tutte le varie categorie menzionate nel film: immigrati, gay, imprenditori che devono riadattarsi, e Raoul Bova che gestisce un internet point, dove gli immigrati raccolgono le monetine per pagare i debiti dell'attività.

Quindi si fa appello alla solidarietà della gente di varie etnie e categorie sociali (cosa che sarebbe positiva), senza considerare la causa, cioè la globalizzazione e il libero mercato che creano crisi e disuguaglianze economiche e sociali.

Immancabile la marchetta di Rocco Papaleo, che da italiano razzista attraverso un percorso di redenzione, si ritroverà a corteggiare una donna africana, e ad apprezzare lo stile di vita gay, perché loro hanno "i posti dove divertirsi", mentre gli etero fanno più fatica.

Anche in questa marchetta abitudinaria di Rocco Papaleo (vedi San Remo 2016), non si menziona ciò che il libero mercato crea, sia per gli italiani, sia per gli africani, e anche per tutto il resto del mondo.

La colpa sarebbe dell'italiano razzista, che non accetta il cambiamento, che sarebbe cosa invece meravigliosa, senza andarsi a preoccupare di cambiare il tipo di politica economica, perché non starebbe a noi decidere di ciò...

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ws 22 marzo, 2016 14:49

non l' ho voluto vedere proprio perchè dai trailers ne intuivo proprio questi "messaggi".

E daltronde nemmeno i precedenti films erano molto meglio anche perche' l' ormai ricco zalone vede sempre piu' il mondo con gli occhi della sua nuova classe, una cosa gia' vista con altri ( un tempo) promettenti comici ( es greggio e ovviamente benigni :-) )

Quindi che dire se non " aridatece toto'! " di cui ricordo , esilaranti si, ma anche davvero educativi monologhi ( ad esempio ne " la banda degli onesti" e la scena finale de " i due orfanelli" )

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a perfect world 25 marzo, 2016 15:28

@ws Mi ritorna in mente una vecchia battuta di Mafalda (Quino); "sbrighiamoci a cambiare il mondo, prima che sia lui a cambiare noi!".

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Davide 22 marzo, 2016 03:15

Messaggio ricorrente, nella penosa produzione cinematrofica di Zalone.

Persona, peraltro, pelosa e ributtante. Oltre che attore (comico?) penoso, che fa tutto fuori che ridere.

Come, peraltro, la quasi totalità dell'attorume in circolazione impegnato nella produzione, di italica matrice, di commediole e tragediole usa-e-getta, in cima alle classifiche dei botteghini, per un pubblico ormai sempre più istupidito da una propaganda vieppiù oscenamente spacciata (panglossianamente) come rappresentazione di realtà.

Pseudo attori sempre proni ed obbedienti alla solita nota parte politica.

Tanto costantemente impegnati, (conscia? o) incoscia-mente, a fare politica sul set, quanto convinti di "produrre Arte" (spacciando, invece, solo m**da; anche, proprio, "artisticamente").

Asserviti da sempre allo stesso padrone politico (Virni Lisi docet).

Proprio vero, volendo citare Chesterton (nel rispetto dei rispettivi credi dei frequentatori del blog, nonchè dell'autore), che "...quando uno cessa di credere in Dio, non è che non crede più niente: crede a tutto!".

Anche - aggiungerei - alla m**da cinematografica degli zalone.

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Bombadillo 21 marzo, 2016 23:12

Caro Pedante,

sono contento di questo tuo articolo, anche perché mi conferma una certa convergenza di vedute, di cui ti accennavo pure nel mio scorso commento:



Secondo me, Quo vado? è uno degli strumenti -consapevoli o meno, non importa- messi in campo per rafforzare il clima culturale che consentirà, senza troppe proteste, l'introduzione del jobs act nella pubblica amministrazione.

Tom

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Il Pedante 21 marzo, 2016 23:45

@Bombadillo Caro Plantamura, ho apprezzato la Sua recensione e più che di convergenza in questo caso parlerei di identità di vedute. Mi piacerà darne evidenza in calce all'articolo.

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L'Immeritocrate 21 marzo, 2016 21:50

Ma cazzo io ero diventato scienziato per quello!

La ringrazio comunque per avermi evitato di guardare un altro film.

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Fabio Sciatore 27 marzo, 2016 17:33

@L'Immeritocrate Ovviamente a trascinare via Checco dal suo stile di vita non poteva essere una dipendente delle poste o una fioraia; ma una scienziata, mestiere da cui il volgo ignorante, e d'esser schiavo "disiante", non teme d'essere suggestionato. Lo scienziato rappresenta colui che tutto può, e tutto può dire perché tutto sa.

La passione morbosa per Einstein che ha il nostro secolo, in questo senso, è la spia che meglio ce lo fa notare. Andate su Wikiquote: il numero di citazioni degli argomenti più vari presenti nella pagina su Einstein supera forse quello di qualunque altra. Leggete quante opere nel corso della storia sono state pubblicate a suo nome. Tutto ciò rende l'idea del morbo che agita chi compila queste pagine e ne edita gli scritti. È come se bastasse sapere cosa abbia detto Einstein su questa o su quest'altra cosa per saperne tutto, per sentirsene soddisfatti, un profeta alla maniera di Gibran che torna, non si sa bene da dove, per dire, dire e dire ancora, ed illustrare la via alla povera gente. Non c'è altra spiegazione per questa proliferazione.

Quale cieco bisogno di fiducia agita gli uomini per dare un credito così ampio all'opinione di UNA SOLA categoria di individui? Quale servilismo ottuso opprime il loro cuore?

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Anna 21 marzo, 2016 21:14

Io non l'ho nemmeno voluto vedere. Vivo in UK e non me ne lamento, anzi ne sono felice e non ho mai pensato di tornare indietro. Ma una cosa è voler andare da qualche parte per una scelta personale e professionale, come ho fatto io, ben altra cosa è dover andare da qualche parte per sopravvivere.

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Filippo 22 marzo, 2016 15:32

@Anna avessi trovato a 30 km da dove sei nata un lavoro ugualmente stimolante ed appagante,

saresti stata meno produttiva , non avendo dovuto subire il "trauma" del trasferimento, della nuova lingua, della lontananza di familiari ed amici di infanzia?

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Anna 22 marzo, 2016 22:19

@Filippo

Sarebbe stato bello avere le stesse opportunità a 30 km, ma forse avrei scelto di andare per ragioni personali. Mi piacerebbe sapere che se volessi tornare avrei la possibilità di farlo, ma so bene che non è, e non sarà, così.

La possibilità di muoversi su di un vasto territorio che comprende stati diversi è una cosa fantastica, purchè rimanga una possibilità da utilizzare se lo si vuole. Per questo detesto il film di Zalone. Se una persona vuole starsene tranquilla nel paese d'origine, perchè non lo deve poter fare?

Ma mi rendo conto che non è per assecondare le nostre aspirazioni che la libertà di movimento ci è stata data.

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a perfect world 25 marzo, 2016 15:34

@Anna Infatti le nostre aspirazioni ce le dobbiamo coltivare e difendere noi. Ma per decenni ci hanno messo l'uno contro l'altro, privati contro pubblici, professionisti contro dipendenti, impiegati contro operai, stimolando tutto lo spettro dei bassi istinti umani. Ormai a far sciopero ti guardano come uno strano, piu' matto che dannoso... ma nulla sanno, pensano di esser pagati perche' producono ricchezza, una mesta congrega di laureati sottoanalfabeti.

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abfaf308 02 aprile, 2016 18:49

Io sono scienziato e lavoro all'estero - ho avuto qui il posto fisso e le opportunità che non sono più disponibili in italia, dopo 15 anni di Unione - Devo dire: sono felice di parlare una lingua in più, di aver conosciuto nuovi ambienti di lavoro, una nuova cultura, nuovi problemi, insomma di essermi arricchito in tanti modi (tranne che economico). Per testimoniare, quando torno in toscana - un paradiso, nevvero - faccio fatica a comunicare con parenti ed amici - sono così ignari di tutto, mancano di sensibilità, via per piddinaggine, ma anche per la lontananza da una qualsiasi frontiera, che rende la vita più sicura e insieme meno profonda.

Così, rimarrei in viaggio anche finché l'energia me lo consente.

Ma - c'è un ma. Ho una figlia, di 4 anni e mezzo, e come nel film parla con me in inglese, oltre che italiano, e pure un po' croato e tedesco. Fenomenale, direte.

No - mentre lo spaesamento non è in problema per gli adulti, ché l'arricchimento di cui sopra lo compensa largamente (sarò sempre straniero in terra straniera, ma più ricco pure degli indigeni) - appare chiaramente che è un problema per la generazione che segue. Mai i figli saranno capaci di avere vere radici nel nuovo paese, e dovranno anche allontanarsi dalle radici nel paese d'origine. Questo è il loro dramma. E ci sono molte evidenze che questo perdura anche per la seconda generazione.

Morale, pendolo con mia figlia, fa scuola qui e lì, nonni su e giù, abbonata ai treni, aerei, ma non può durare. Non deve.

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max 09 aprile, 2016 08:44

@a perfect world la realtà è proprio che abbiamo prodotto e continuiamo a produrre ricchezza e ce la RUBANO tutto qui BUONA GIORNATA DIMMERDA

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