Elogio della democrazia

23 aprile, 2016 | 23 comments
E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e l'uguaglianza; e, dall'altra parte, i profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella dell'organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere.

(Radiomessaggio di Sua Santità Pio XII ai popoli del mondo intero, 24 dicembre 1944)

Il caso del recente referendum sulle trivellazioni marine, quello in cui un presidente del Consiglio e un ex presidente della Repubblica invitavano i cittadini ad astenersi e un deputato del partito di maggioranza sbeffeggiava i votanti, è solo l'ultimo atto di un fenomeno da tempo maturo: il fastidio, il disgusto, la paura della democrazia.

In fuga dalla democrazia

In uno dei tanti paradossi orwelliani dei nostri tempi, i totalitarismi del passato sono condannati nei simboli ma rivivono sempre più fedelmente nel plauso di oligarchie che si dicono illuminate - i tecnocrati, i burocrati, i mercati finanziari, i salvatori della patria - in quanto capaci di scelte impopolari (cioè, etimologicamente, antidemocratiche) e avversi a tutto ciò che è populista (cioè, etimologicamente, democratico). E nell'idea che la partecipazione delle masse al potere rappresenti un irrompere di egoismi incompatibili con il progresso generale, tanto che i singoli appartenenti a quelle stesse masse accettano la sacrificabilità del proprio diritto a decidere pur di impedire che decidano anche i barbari e gli irresponsabili: cioè gli altri.

Questo timore serpeggia fin dalle origini nazionali nelle coscienze dei benpensanti (ne abbiamo parlato qui). Così si leggeva nel 1876 sull'editoriale che ne inaugurava il quotidiano di riferimento, il Corriere della Sera:

E però ci accade [...] di non voler il suffragio universale, se l’estensione del suffragio deve porci in balia delle plebi fanatiche delle campagne o delle plebi voltabili e nervose delle città.

Dopo una breve e imperfetta parentesi, oggi la democrazia è ancora considerata un lusso riservato a tempi prosperi e oziosi, un gioco di società dal pedigree nobile e caro agli idealisti, ma da sospendere o limitare al presentarsi di qualsiasi emergenza - economica, militare, terroristica, finanziaria - o più semplicemente se diventa troppo costoso. Al più se ne tollera la versione ludica e minore, quella democrazia dal basso o bassa democrazia (ne abbiamo parlato qui) i cui effetti sono programmaticamente limitati alle modalità applicative di ciò che si è già deciso altrove, quando non all'irrilevanza tout court.

L'esigenza di mettere una parola pedante su un tema così spesso dibattuto mi è sorta conversando con un amico italiano, secondo il quale la trasformazione coatta delle banche popolari in società per azioni, con il trasferimento del potere decisionale dall'assemblea capitaria dei soci a pochi grandi azionisti, sarebbe cosa encomiabile perché - diceva - non possiamo più permetterci un'altra crisi bancaria (?). Negli stessi giorni mi trovavo coinvolto nell'avviamento di una piccola cooperativa e apprendevo che la principale preoccupazione dei fondatori era quella di scongiurare, con ogni possibile strumento statutario e di legge, l'effettiva partecipazione dei futuri lavoratori alla gestione dell'impresa: per evitare - dicevano - veti, ribaltoni e ricatti.

Ne trassi la conclusione che il nesso democrazia = caos = dissesto si è inoculato nelle menti di molti come un assioma che non abbisogna di dimostrazioni. E ciò a dispetto non solo delle migliori intenzioni ma anche dell'evidenza storica. Al mio giovane interlocutore avrei voluto chiedere se Lehman Brothers fosse stata per caso una cooperativa o un soviet, ma lì per lì l'enormità del suo non sequitur mi lasciò senza parole. Sicché mi ripropongo qui di impiegare le mie scarsissime forze per convincere me stesso e i miei pochi lettori che forse gli ultimi cent'anni di storia - democratica, mutualistica, cooperativa e sindacale - non sono trascorsi invano, nella speranza che il morbo della competizione non ci trasformi in individui segregati e paurosi dell'altro, e quindi alla mercé di chi è più forte e organizzato di noi.

La vacuità di un simbolo

Va innanzitutto riconosciuto che per risollevare le sorti della democrazia - casomai si volesse e fosse ancora possibile farlo - non serve brandirne i simboli e recitarne ossessivamente il catechismo. Si è già dimostrato altrove che in politica i simboli hanno quasi sempre la funzione di occultare l'assenza della realtà evocata per veicolare il suo opposto: gli slogan di sinistra per mascherare le politiche di destra, la retorica del lavoro per servire il capitale, i colori della pace per giustificare le guerre, l'antifascismo per risuscitare il fascismo ecc. Sul punto basterà del resto osservare che il partito politico che più si è distinto nello smantellamento della democrazia, quello che invita all'astensione, negozia trattati antidemocratici in segreto, scioglie le cooperative bancarie, progetta lo sfascio degli equilibri costituzionali, predica la cessione della sovranità popolare, l'annessione ex imperio a una federazione eterodiretta e la sottomissione a poteri mai eletti né contemplati dagli ordinamenti democratici (i mercati finanziari, le banche centrali indipendenti, le combriccole europee, i think tank), ebbene quel partito è lo stesso che si dice Democratico anche nel nome.

Onorare la democrazia come una medaglia coniata in tempi gloriosi o una suppellettile da esibire agli ospiti è la via migliore per farne un reperto e spalancare le porte al suo superamento. Più che accodarsi alla retorica museale di coloro che, appunto, vorrebbero rinchiuderla in un museo o in un marchio, sarebbe perciò utile interrogarsi sulla sua opportunità al netto di ogni vincolo storico e identitario: come se non fosse mai esistita, come se non se ne fosse mai scritto né parlato.

Un male necessario?

Uno dei vantaggi riconosciuti al metodo democratico è la sua natura di mutua concessione, in virtù della quale ciascun membro della comunità ammette la partecipazione altrui al processo decisionale affinché ne sia egli stesso ammesso. È, questa, una concezione della democrazia come "male necessario", un do ut des dove le decisioni altrui, e quindi anche i bisogni e le visioni che le esprimono, sono tollerate così come ne sono tollerati i faticosi processi di vaglio, discussione e approvazione. Non è difficile intuire come questa concezione intimamente antagonista ("la partecipazione degli altri è un fastidio, ma mi tocca sopportarla se voglio partecipare anch'io") ponga la sopravvivenza della democrazia su basi assai fragili, che coincidono di fatto con la debolezza dei suoi membri. Non appena un soggetto acquisisca la forza - economica, coercitiva o altro - per imporre le proprie decisioni senza nulla concedere agli altri, il patto sociale si spezza e la democrazia scivola verso l'oligarchia. Che è ciò che sta accadendo oggi, con uno sparuto gruppo di individui la cui disponibilità di capitali si traduce non tanto in ricchezza quanto anche e soprattutto nel potere di condizionare la vita della comunità e dettarne le politiche e le leggi, con la tacita approvazione di chi non può permetterselo ma vorrebbe.

Se la democrazia come "male necessario" ha già in sé i semi della sua estinzione, per recuperarla occorre quindi liquidarne l'idea di concessione coatta, per quanto mutua ed eventualmente nobilitata dall'altruismo, e concentrarsi sui suoi vantaggi diretti che, a parere di chi scrive, esistono e sono confortati dagli esempi storici. Quello che segue ne è un elenco, per quanto imperfetto e da integrare. Al costo di ripetere l'ovvio - come è nella missione di questo blog - lo propongo alla riflessione dei lettori che hanno avuto la pazienza di seguirmi fin qui.

Perché sì

L'estensione della base partecipativa alle decisioni di una comunità costituisce prima di tutto un'assicurazione contro gli errori dei singoli. Dopo la guerra quasi tutti riconobbero gli errori del nazifascismo, ma prima di allora - quando cioè sarebbe servita - quella consapevolezza era appannaggio di pochi e perseguitati oppositori. Se la voce di questi ultimi non fosse stata repressa dalla dittatura si sarebbero forse evitati gli eccidi che caratterizzarono gli ultimi anni di quei regimi. In tempi più recenti e nominalmente democratici, il governo sedicente tecnico di Mario Monti - nei fatti una dittatura, con tanto di colpo di stato iniziale - fu salutato da molti come una liberazione. Dopo un anno il gradimento degli italiani per il premier sfiorava ancora il 50% ma già alle successive elezioni il suo partito prese poco più dell'8% e, in seguito, sempre più persone compresero la portata dei danni inflitti dall'austerità montiana. Se invece di essere imposto dall'estero con la bugia dell'emergenza, quel governo avesse democraticamente incluso anche la rappresentanza di chi ne aveva compreso per tempo la pericolosità, probabilmente il suo impatto distruttivo sarebbe stato più limitato.

Insomma, è sempre possibile che chi la pensa diversamente da noi abbia in realtà capito prima di noi ciò che noi capiremmo troppo tardi. E poiché solo gli stupidi non cambiano mai idea, escludere dalle decisioni chi ha idee diverse dalle proprie è una soluzione che lasciamo agli stupidi.

Va anche considerato il caso che chi partecipa al processo democratico sia mosso non solo da idee, ma anche da interessi diversi. Nella retorica oggi in voga ciò diventa spesso un pretesto di scontro sociale e di limitazioni all'inclusione democratica. Ne è un esempio il caso dei giovani che lamentano la caparbietà con cui gli anziani difenderebbero i propri insostenibili (?) trattamenti pensionistici. L'essere un Paese demograficamente vecchio - dicono - fa sì che i pensionati sfruttino il loro peso elettorale per costringere la politica a tutelare i loro privilegi (?) a danno delle giovani generazioni. Il che non spiega perché quella politica, la stessa che subirebbe il ricatto democratico delle maggioranze gerontocratiche, sia invece smaniosa di raccogliere il grido d'aiuto della gioventù depauperata (clicca qui per la risposta esatta). Non ci vuole un genetista per capire che anche i giovani diventeranno vecchi e che nel volgere di pochi decenni godranno dei diritti e della dignità minima difesi dai padri - sempre che prima non ne abbiano ottenuta la revoca derogando in un sol colpo alla democrazia e al proprio istinto di conservazione.

L'inclusione di bisogni e condizioni a sé estranei nel processo decisionale ha quindi il vantaggio di tutelare il proprio interesse potenziale, oltre che quello immediato. Il discorso si può estendere ad ammalati, carcerati, imputati, disoccupati, sfrattati, proprietari, inquilini ma anche alle professioni, ai settori di attività e ai luoghi di residenza, insomma a tutte quelle condizioni per il cui miglioramento altri stanno lottando e che oggi non ci raggiungono - o che addirittura ignoriamo - ma alle quali i casi della vita possono presto o tardi avvicinarci.

Il terzo vantaggio che ci piace richiamare è quello che colloca la democrazia nel compimento di un processo umanistico millenario sui cui frutti si innesta - o si dovrebbe innestare - la civiltà che ci vantiamo di insegnare nelle scuole. In democrazia il voto democratico è capitario, vi si premia cioè la numerosità dei votanti senza distinguerne censo, ruolo, importanza politica ecc. In democrazia un uomo è un uomo e l'essere umano vale in quanto tale. E poiché i poveri sono tanti e i ricchi sono pochi, i sottoposti una massa e i potenti un'élite, la democrazia è anche uno strumento di redistribuzione, se non della ricchezza, del potere che ad essa si associa limitandone gli eccessi.

Questo vantaggio - il più temuto dai suddetti benpensanti, che per qualche risibile motivo si reputano ai vertici della catena economica e sociale - non è ovviamente universale come quelli prima esposti. Che ricchi e potenti cerchino di far valere il proprio vantaggio sul numero è nella natura delle cose. È invece contronatura che chi non ha patrimoni o eserciti per imporre la propria voce - cioè io che scrivo, tu che mi leggi - desideri spogliarsi della sua unica forza.

La democrazia è anche una garanzia di ordine sociale. Distribuendo il potere a tutti si limita il ricorso alla sovversione e alla violenza propria degli esclusi. In quest'ottica, è anche un metodo di legittimazione e spersonalizzazione del potere in cui i rappresentanti politici, per quanto odiati, possono farsi scudo del consenso dei milioni che li hanno votati e opporre ai propri detrattori la forza di una legittima maggioranza. Un aspetto, questo, che merita un inciso.

Chi ha interesse a limitare e sospendere le garanzie democratiche vuole al contempo preservare l'ordine sociale garantito (anche) dall'inclusione democratica. Solo così può infatti raccogliere in sicurezza i frutti dell'immenso potere acquisito, ad esempio assicurandosi che i cittadini rispettino le leggi che ha fatto approvare nel proprio interesse, accettino i debiti che ha fatto loro contrarre, riconoscano la legittimità dei burattini che ha messo alla guida dei governi. A parere di chi scrive, è sul fragile filo di questa doppia e contraddittoria esigenza che vanno interpretati i fenomeni già descritti in questo blog sotto l'etichetta di "bassa democrazia": essi servono appunto a creare nei cittadini l'illusione di essere ancora protagonisti delle decisioni comuni. Dalla "democrazia dal basso" movimentista e padronale al rito privato delle primarie, dai referendum consultivi ai sondaggi, dalla libertà vigilata di internet alle rivoluzioni colorate e pentagonali, le iniziative messe in campo rispondono tutte all'intento cosmetico di coltivare un'illusione democratica manovrabile e impotente. Se le decisioni importanti debbono avvenire al riparo dal processo elettorale, occorre distrarre le popolazioni con il videogame delle democrazie-giocattolo.

A chiusura di questa abbozzata rassegna non deve mancare il nesso empirico tra democrazia e prosperità nazionale. Domenica 13 e lunedì 14 aprile 2008 si votava con il sistema elettorale detto "Porcellum" che, con l'eliminazione delle preferenze e l'assegnazione di un premio di maggioranza irragionevolmente generoso, segnava tecnicamente l'inizio del declino democratico e della restaurazione verticista nel nostro Paese. Cinque mesi dopo - il 15 settembre - il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers apriva la crisi finanziaria mondiale e gettava nel panico gli speculatori, che reagivano scaricando sugli Stati i propri crediti deteriorati. Da allora in Italia si sono avuti almeno tre governi che, se non direttamente imposti dagli investitori, ne hanno agevolato senza limiti il rischio e l'arricchimento a spese dell'economia nazionale. Di questi, due si sono materializzati al potere senza alcuna effettiva legittimazione elettorale, e l'ultimo sta osando l'inosabile: sbaraccare la democrazia direttamente alla fonte costituzionale.

Nel frattempo abbiamo perso il 10% di prodotto nazionale, oltre un quarto dell'output industriale, centomila imprese e 1 milione di posti di lavoro, mentre decine di migliaia di giovani faticosamente formati con le risorse della collettività continuano a lasciare il Paese nella certezza di non trovarvi un futuro dignitoso.

È solo un caso o c'è anche un nesso causale tra deficit democratico e recessione? C'è, e bisogna essere ciechi per non vederlo. Laddove sono rappresentati gli interessi di tutti è più difficile che qualcuno imponga il proprio a danno degli altri. Oggi invece i prestatori di denaro e gli enti sovranazionali che li rappresentano dettano legge liquidando le opposizioni in nome delle emergenze che di volta in volta si inventano. È normale che si prendano tutto. Che impongano il credito a interesse come norma dell'economia (ne abbiamo scritto qui), che limitino il ricorso al denaro che non possono controllare né gravare di interessi (v. L'incubo no cash), che svalutino il lavoro e deprimano l'inflazione per rivalutare i propri capitali, che diano un prezzo ai diritti umani e costituzionali, che sognino valute e mercati sempre più globali per ampliare la platea dei loro investimenti, che mettano gli Stati a garantire i rischi delle loro speculazioni. E pazienza se tutti gli altri ci rimettono. In fondo, se a governare senza opposizioni non ci fossero i banchieri, ma i fornai, pagheremmo il pane 100 euro al chilo. Perché stupirsi?

Il pastore che non c'è

In questa lunga pedanteria si è visto come l'attacco alla democrazia - e la speculare fuga da essa - incroci molti temi trattati in questo piccolo blog e richiamati da più autorevoli osservatori, integrandosi perfettamente nella strategia in corso di concentrazione ed emancipazione del potere nelle mani di pochi non eletti.

Chi aggredisce la democrazia svuotandola e lasciandone la scorza simbolica alle masse merita certamente la nostra censura morale, ma quantomeno gli va riconosciuta l'attenuante del raziocinio. Gli enormi vantaggi conseguiti valgono lo sforzo distruttivo intrapreso. Più preoccupante è la massa sottostante, quella che non avendo altra via per rappresentare i propri interessi schifa la democrazia o ne tollera l'attenuazione. Perché lo fa? Da dove nasce il fastidio?

Per rispondere, mi piace rimandare l'eventuale e residuo lettore all'ipotesi, altrove formulata, dell'infantilizzazione. Chi teme la democrazia sembra presupporre che, al di sopra della marmaglia scomposta e popolare che si azzuffa per difendere i propri miopi interessi, al di sopra della cagnara degli egoismi e dell'analfabetismo civico dei connazionali (cioè degli altri connazionali), al di sopra dell'inconcludente, esasperante, immobile gioco degli equilibri democratici (mentre fuori-c'è-la-Cina, lo spread incalza, il debito esplode, l'Europa ci chiede le riforme ecc.), ebbene al di sopra di tutto questo riposino galantuomini capaci e di buon senso, estranei alle facili glorie elettorali e, magari proprio perché ricchi, immuni dal clientelismo e disinteressatamente dediti al bene comune.

Questo ritratto letterario, di norma riservato agli schivi frequentatori degli olimpi della finanza e ai loro diletti, evoca la rassicurazione che nell'assordante asilo della democrazia ci siano anche dei tutori, delle persone adulte che sanno discernere il bene dei pargoli e ai quali è saggio affidarsi nei frangenti più pericolosi. Sicché se ne brama la guida e all'occorrenza il castigo, li si evoca pur di non affogare nell'anarchia degli infanti.

Questa deriva psicologica affonda nelle insicurezze dei singoli ed è accuratamente coltivata nelle retoriche dell'informazione. È difficile, ma urgente e necessario, rendersi conto che se le comunità umane non si discostano in effetti di molto dai branchi o dai giardini d'infanzia, i sedicenti sobri esponenti del capitale internazionale, dei think tank, delle istituzioni economiche e dei sedicenti prestigiosi atenei non sfuggono alla regola. Anzi. Abituati a ben più generosi appetiti, nel perseguire i loro interessi deprivano popoli interi facendo impallidire le ruberie di amministratori corrotti, imprenditori disonesti, funzionari fannulloni e tutta la ciurma dei furbi, dei ladri e degli indifferenti a cui ci piace attribuire il declino.

Rinunciare alla democrazia per affidarsi a costoro e ai loro vassalli significa semplicemente far vincere a tavolino un partito: il più piccolo e minoritario, quello dei ricchissimi, che non solo non potrebbe mai vincere in una democrazia senza trucchi, ma è anche l'unico che non ne avrebbe bisogno.



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disperato 10 aprile, 2019 19:47

Vi è anche un altro vantaggio nella democrazia: la possibilità di sviluppare la scienza (con annessa tecnologia, che si può avere anche senza una vera scienza ma allora sarà per forza molto più rudimentale, senza contare che l'interesse per la scienza può prescindere dalla tecnologia e avere a che fare con la ricerca della verità, qualcuno direbbe il disvelamento).

Infatti la scienza è un sottoprodotto della filosofia occidentale, che a sua volta richiede la messa in discussione del principio di autorità sostituito da quello di autorevolezza, cioè dalla logica e dalla forza intrinseca del ragionamento, alla cui base c'è storicamente la democrazia.

Senza democrazia niente filosofia occidentale, senza filosofia occidentale niente scienza.

Se si perde la democrazia non si perde solo la democrazia.

Saluti.

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Carlo Barranco 06 maggio, 2016 17:29

Sono molto felice di aver letto quest'opera del Pedante, una bella dose della mia droga preferita, che mi fa sentire meno solo.

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epifanio g 28 aprile, 2016 09:42

La parola democrazia è una parola squalificata, a mio avviso. Comincio addirittura a pensare che sarebbe il caso di metterla da parte. Perché se la democrazia sta a indicare i sondaggi d'opinione grillini su Internet spacciati per democrazia diretta, o, in alternativa, le primarie del PD, o ancora, le stesse elezioni a suffragio universale, dove si vota qualcuno che all'atto pratico avrà pochissimo potere, per di più con un sistema elettorale orribile, beh, allora di questa roba un uomo libero deve fare a meno. Tanto, chi conta davvero farà comunque i suoi comodi.

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Joel Samuele Beaumont 28 aprile, 2016 00:49

Come già accennato su twitter, ho un senso di profonda demoralizzazione, quando il cittadino comune è contento che il vigile "glie fa a multa", perché in fondo sono «giuste multe», senza il quale il cittadino parcheggerebbe continuamente in doppia fila; oppure, passerebbe sicuramente con il rosso.

PRIMO: perché se hai parcheggiato in doppia fila, è perché in fondo lo ritenevi giusto, oppure ti sei sbagliato, ma non si dovrebbe ritenere che una persona adulta, debbia essere multata per capire come ci si deve comportare.

SECONDO: se ritieni che una legge sia sbagliata, allora è giusto anche fare quello che uno crede giusto sia fare.

Ci si difende anche dietro quel famoso detto "la legge non ammette ignoranza", senza considerare che le norme e le leggi, diventano ogni giorno sempre più complicate, e diviene impossibile anche per una persona con una certa preparazione, sapere se ci si trova in regola o meno.

Da qui, si evince, che la partecipazione del cittadino alla vita sociale ed economica, attraverso proprie idee o decisioni, diventa sempre di più un lusso, e si fanno le cose con il timore di essere fuori regola, anche quando le regole sono in contrasto tra di loro e incomprensibili.

Quindi solo sotto il cappello protettivo di chi controlla la "democrazia", si può partecipare in senso limitato, e sempre senza uscire da certi tipi di parametri, sperando che qualcuno approvi la tua idea. Sia che si tratti di idea politica, economia, o di lavoro, qualcuno ti deve conferire una coccarda che certifica la tua autorevolezza, che ti serve a partecipare.

Bisognerebbe anche avere il coraggio di esporre idee e concetti, senza necessariamente esibire la propria laurea, o un qualsivoglia attestato che secondo il mio parere, uno si può fare a casa con GIMP (programma per immagini), e che avrebbe in certi casi più valore. E dico questo senza mancare di rispetto a chi studia, ma vedo troppo spesso che si usa citare personaggi (preferibilmente morti), per dare sostegno alle proprie tesi dandogli un tocco di autorevolezza, mentre poi uno di idee proprie in realtà non ne ha. In una società dove l'immagine è l'apparire si confonde con l'essere qualcosa che non si è, perché si pensa di non essere autorizzati ad esserlo.

Qualcun altro, più autorevole e con più diritto di te, che indegnamente vuoi partecipare ad un dibattito democratico, ma senza averne i titoli e le referenze giuste, deciderà il come e in che modo potrai dire la tua. Visto che eri venuto in pratica per tutelare solo i tuoi pretestuosi interessi, senza aver chiesto l'autorizzazione.

Oppure, ti verrà indicata la porta, dicendoti che la democrazia permette di aprirti l'ennesimo forum, pagina FB, dove potrai dire la tua, e avere la massima libertà di espressione; e dove potrai andare commentare nei blog, dove in fin dei conti non conti un c***o.

Ecco, ho detto tutto.

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Bombadillo 27 aprile, 2016 00:11

Caro Pedante,

il tuo interessante post mi “costringe” ad una risposta articolata. Un punto di partenza opportuno potrebbe essere costituito dal preambolo della costituzione europea, bocciata dai referendum in Francia e Olanda, e poi in molte sue parti riproposta nel trattato di Lisbona, ma senza più il valore simbolico di costituzione. Quando si parla di quella costituzione, tutti ricordano la polemica relativa alla richiesta di alcuni Stati, tra cui l’Italia, di inserire nel preambolo un riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Richiesta che non venne esaudita. Fortunatamente, aggiungerei, perché l’Europa non ha radici giudaiche, e neppure cristiane, visto che pure i protestanti si ritengono cristiani, e il protestantesimo ha rappresentato una forza di rottura dell’unità europea. Piaccia o dispiaccia, infatti, il dato di fatto oggettivo storico è che l’Europa ha radici romane, perché è stata unita solo due volte: nell’antichità, con Roma caput mundi, e, se pur in modo diverso, nel medio evo, quale res publica christianorum, diciamo fino al 1300. In entrambi i casi, la dissoluzione venne da oltre il Reno…ma non è di questo che voglio discutere. Voglio riferire, piuttosto, di quello che i più non ricordano, ovverosia della prima frase (tratta da Tucidide) dell’originario preambolo della costituzione, poi scomparsa in sede di ratifica, per cui, in definitiva, la nostra forma di governo –l’Atene di Pericle- è la democrazia e non l’oligarchia. Solo che gli arconti dell’Atene di Pericle erano sorteggiati, e non eletti. Il metodo elettivo, per sua natura, tende a favorire un governo dei pochi, cioè, appunto, un’oligarchia. Per essere eletti, infatti, ieri, oggi e domani, ci vogliono i mezzi. L’idea che il metodo elettivo sia in se democratico è una delle tante imposture figlie della rivoluzione francese, quella per cui la proprietà era sacra, le libertà positive non esistevano, e quelle negative valevano solo per chi era d’accordo con loro.

In definitiva, tutta la cifra realmente democratica della Repubblica italiana risiede in talune scelte importanti, vere e proprie scelte di campo, compiute una volta e per sempre nella nostra Costituzione. Ed è proprio della Costituzione, infatti, più che del metodo elettivo, che oggi si propone una concezione museale: la costituzione più bella del mondo, da guardare e ammirare, ma non applicare. Insomma, il nostro regime è (dovrebbe essere) democratico solo e proprio perché il voto conta relativamente, in quanto puoi votare chi vuoi, ma tanto chi ti rappresenterà potrà scegliere solo fino ad un certo punto: potrà scegliere, cioè, all’interno di un recinto ben delimitato, descritto da una costituzione rigida, e che ha un guardiano preciso, ovvero la Corte costituzionale.

Non è certo un caso che proprio la Francia moderna, figlia della sua rivoluzione liberale ed oligarchica, sia stata molto restia ad accogliere questa concezione. Fino alla costituzione del 1958, non avevano una Corte costituzionale, e, quando è stata prevista, potevano ricorrervi solo il Presidente della Repubblica, quello del Consiglio dei ministri e quelli delle due Camere legislative. Insomma, tutti esponenti di spicco della maggioranza, capite che non ha senso, vero? Solo una lenta evoluzione della giurisprudenza del Consiglio costituzionale, per altro, ha consentito che quest’ultimo entrasse nel merito dei provvedimenti, e non giudicasse solo sulle formalità, anche agganciandosi ai diritti sociali previsti nel preambolo della Costituzione del ’46.

In sintesi, il metodo elettivo non serve a garantire la tutela delle classi sociali più deboli, se non all’interno di un sistema con una Costituzione rigida, di stampo sociale, e con una Corte costituzionale indipendente ed efficiente: su questo credo si debba convenire con il dott. Barra Caracciolo, almeno per quello che ho inteso io del suo pensiero.

Allora, però, io credo che la gente non vada a votare non perché abbia fiducia nei tecnocrati e nelle loro scelta illuminate e, paradossalmente, giuste perché impopolari. La questione dell’infantilismo è vera, ma quello è il messaggio veicolato dai media, non il reale motivo della rinuncia al voto. Il reale motivo della rinuncia al voto è che la gente si è resa conto che, qualsiasi voto esprima, non cambierà assolutamente nulla. E allora perché andare a votare, così legittimando questa oligarchia che ha disattivato la Costituzione democratica? Sarebbe come andare a concorre ad un pubblico concorso che tanto sai essere truccato. Che senso ha? Per dare al vincitore predestinato pure la legittimazione di aver fatto un concorso vero?

La questione cambia un poco con gli strumenti di democrazia diretta, di cui però la nostra Costituzione post-fascista diffida. Da qui la scelta per il referendum solo abrogativo, per giunta sottoposto a quorum. Mentre è solo in difesa della Costituzione da modifiche impopolari che, non a caso, non viene previsto alcun quorum: ad ottobre, quindi, un potere impeditivo lo avremo davvero, e credo e spero che vorremo andare tutti a votare.

Tom Bombadillo

P.S.: Sanders non ha speranze, ma mi pare che Trump ce la farà. Sono proprio curioso di vedere se la candidatura di Trump, che in ogni caso, a torto o a ragione, è percepito come una diversità, come la possibilità di operare veramente un scelta, porterà finalmente qualche americano in più a votare.

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Ippolito Grimaldi 27 aprile, 2016 14:00

@Bombadillo

Bellissimo intervento, dissento solo sulla Sua affermazione che il metodo elettivo porti necessariamente ad una oligarchia; in realtà l' obiettivo, oltre la rappresentanza diffusa, era di conferire la delega ad esercitare il potere legislativo ad una aristocrazia, intesa nel senso letterale e più stretto del termine: un governo dei migliori, non necessariamente assimilabile alla oligarchia o alla timocrazia.

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Il Pedante 27 aprile, 2016 15:29

Gentile @Bombadillo, nel ringraziarLa per il lungo e prezioso contributo mi piace ricordare che questo mio articolo prosegue una riflessione sulla democrazia già avviata in "Democrazia dal basso, bassa democrazia". Là rigettavo implicitamente la definizione tecnico-procedurale di democrazia à la Bobbio, essendo (e dovendo essere) le procedure sempre superabili, optando invece per un più ecumenico criterio dell'"output" sulla scorta del paper ivi citato. Individuavo quindi nella "liturgia laica" delle elezioni il simbolo sufficiente della democrazia contemporanea, manipolata e manipolabile. Il tassello mancante, che il Suo intervento va a colmare, era effettivamente l'aggancio costituzionale in quanto garanzia di inclusione dei bisogni di tutti.

La disaffezione dal voto in quanto inutile è senz'altro una parte della storia. Diciamo che nell'articolo mi sono concentrato più su coloro che, avendo una coscienza politica e la volontà di partecipare alle sorti della propria comunità, temono l'inclusione altrui perché temono il prossimo: cioè la comunità stessa.

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The Max 26 aprile, 2016 22:59

Un altro vantaggio della democrazia è che è intrisecamente autocorrettiva. Non propone delle verità assolute e immutabili, ma si propone come una rappresentazione imperfetta delle relazioni sociali che necessitano di modifiche continue il cui fine non è raggiungere un determinato stato obiettivo ma nell'adattarsi di volta in volta a quelle che sono le necessità di popolo.

E per essere adattabile deve avere i suoi gradi di libertà che le permettano di essere flessibile, ma anche i suoi vincoli che le impediscano di sfociare nel caos. E' quando si tenta di modificare questo equilibrio tra libertà e vincoli che succedono i veri casini.

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Andrea 26 aprile, 2016 17:00

Sul corriere di oggi Galli della Loggia contro il suffragio universale

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Aquilano 26 aprile, 2016 22:13

@Andrea Non mi pare una rappresentazione corretta. Dice che con il suffragio universale la volontà del paese prima o poi emerge. Non mi pare dia giudizi di merito su tale fatto, se cioè lo ritenga positivo o negativo. Sicuramente è un editoriale autorazzista, caricaturale, ad effetto. Per questo deprecabile, offensivo, penoso. Per ciò stesso gradevole alle plebi di campagna e di città di cui all'editoriale del 1876 richiamato nel post. Ecco perché lui scrive editoriali e il Pedante post. Ed ecco perché io leggo quest'ultimo e non il Corriere.

Resta però un rumore di fondo che non riesco ad isolare dal resto, per il quale avevo scritto un commento lungo e articolato che non ho inviato.

Tutti ci professiamo democratici (quasi tutti...) e saremmo disposti finanche a combattere per difendere la democrazia. Ma siamo in democrazia? O siamo in una democrazia asimmetrica, imperfetta, deformata? Siamo in una non-democrazia? O più semplicemente non siamo in democrazia? Siamo ancora tutti d'accordo che la Repubblica è fondata sul lavoro (e nei fatti pare proprio di no)? Siamo ancora d'accordo sulla necessità del II comma articolo 3 Cost. che pure allo stato risulta essere miseramente disapplicato? Siamo democratici pur cercando di determinare e di deviare per i nostri fini ed interessi il voto elettorale o referendario e gli orientamenti dell'elettorato, cioè anche di quelle plebi di campagna e di città? È cambiato qualcosa dal radiomessaggio di Pio XII ad oggi, a parte il passaggio da una situazione di assenza di democrazia a quella presente? C'è differenza?

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valerio 26 aprile, 2016 14:56

Bel post, as usual (mi si consenta un po' di esterofilia), ma non sono d'accordo sull'incipit.

L'astensione al referendum abrogativo è una scelta del tutto legittima tanto è vero che nella Costituzione si prevede espressamente la necessità del raggiungimento di un quorum.

Ciò sia per evitare scelte impulsive e sia per permettere al corpo elettorale di dire: della vicenda legiferi il parlamento.

Detto questo è sempre sbagliato trasformare il referendum abrogativo in un voto contro o pro il governo perché si va a snaturare l'essenza dell'istituto.

Aggiungo che spesso il referendum è stato utilizzato per far passare (o tentare di) principi decisamente antipopolari o antinazionali (si vedano le campagne referendarie promossa dal Partito Radicale: leggi elettorali, abrogazione del controllo pubblico sulle spa partecipate - non passò ma saggiamente rimediò il governo D'Alema, divieto per l'ENEL di costruire centrali nucleari all'estero ecc. ecc.).

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The Max 26 aprile, 2016 22:54

@valerio potrei sbagliarmi non essendo un costituzionalista. Certamente l'astensione è una scelta legittima, ma non perchè è previsto un quorum, ma per il semplice fatto che il voto non è un obbligo ma un diritto/dovere che ognuno, nella propria libertà, può scegliere di esercitare o meno.

In una democrazia rappresentativa il parlamento esercita, in rappresentanza del popolo, la sovranità sullo stato. Ma non rappresenta il popolo solo in termini 'valoriali' ma anche in termini numerici (con tutte le approssimazioni del caso). Dato che una legge dovrebbe venire dal parlamento, si presume che rispetti la volontà popolare per lo meno nella sua maggioranza (al più relativa).

Capita tuttavia che, per dolo colpa o negligenza, la legge scaturita non rispetti la volontà popolare, quindi è stato previsto lo strumento referendario come strumento di correzione. Tuttavia affinché abbia pari dignità del parlamento, la nostra costituzione, prevede per il referendum un quorum. Ora, forse si può discutere sulla efficacia, validità del quorum o del livello più opportuno, ma il quorum non è stato previsto per garantire il diritto all'astensione, ma per dare la giusta autorevolezza del voto referendario che agisce su leggi promulgate da un parlamento che già di per sé è rappresentativo del popolo e della sua maggioranza.

Ovviamente tutto questo era l'idea di democrazia che la nostra costituzione proponeva, ben diversa dalla realtà attuale.

Poi che un referendum sia giusto o sbagliato è il voto che lo decide. Che si sia abusato dello strumento referendario può essere vero, ma questo non vuol dire che ce ne dovremmo privare a priori. Riporto dal Pedante: è sempre possibile che chi la pensa diversamente da noi abbia in realtà capito prima di noi ciò che noi capiremmo troppo tardi.

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Cristina 26 aprile, 2016 13:05

L'idea che la democrazia vada messa sotto tutela di persone "capaci" e tolta al popolino imbecille è tipica della Massoneria.

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winston smith 23 aprile, 2016 22:46

In virtù del potere conferitomi dalla pedanteria - che, ricordiamolo, è contagiosa -, le segnalo che, ove ha scritto "dirigismo" (nono capoverso del paragrafo "Perché sì"), sembra proprio che intendesse riferirsi al verticismo, o elitismo - da non confondersi con l'etilismo, che purtuttavia nuoce ugualmente alla salute -. In tempi di attacco indiscriminato alle funzioni sociali dello Stato, forse è meglio correggere, onde evitare spiacevoli equivoci.

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Il Pedante 24 aprile, 2016 00:40

@winston smith Approvato.

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Pietro Mario 23 aprile, 2016 22:09

E' una lunga ma estremamente lucida disamina sulla democrazia e sull'uso distorto che se ne vuole fare.

STIAMO IN CAMPANA! NON DIAMOLA PER SCONTATA.

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Valerio 23 aprile, 2016 20:41

Ogni articolo un capolavoro.

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Grazia 23 aprile, 2016 16:09

Analisi implacabile. E l'amarezza è ancora più grande nel constatare l'adesione di gran parte delle vittime alla narrazione dei feudatari. Pane, sempre più scarso, e circo che con geniale cinismo è fatto pagare da chi è destinato ad esserne rimbecillito.

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Gugliemo Pace 23 aprile, 2016 15:05

Buongiorno,

il suo post mi ha ricordato un radiomessaggio di Pio XII del 1944 proprio sulla democrazia.



Era da un po' di anni che non lo rileggevo e devo dire che mi ha dato molti spunti.

Trovo significativo questo passaggio, in cui un Papa si dimostra più moderno dei moderni liberali-liberisti ecc

"Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione."

Inoltre pure questo, dove si parla dei problemi che sorgono quando al popolo si sostituisce la "massa"

"E sopravvivono soltanto, da una parte, le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e l'uguaglianza; e, dall'altra parte, i profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro o quella dell'organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere. "

Non so, per me è la descrizione dei nostri tempi: forse nei decenni successivi alla dittatura invece di costruire un popolo italiano si è costruita una "massa"

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Il Pedante 25 aprile, 2016 13:08

@Gugliemo Pace Codesto è un documento prezioso, lo cito nell'incipit.

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Andrea Masetti 23 aprile, 2016 11:40

>

Piero Calamandrei , In difesa di Danilo Dolci 1956

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Vittorio Bova 23 aprile, 2016 11:24

Eccellente Pedanteria! Come sempre del resto.

La ringrazio per questo ragionamento sulla democrazia ed i suoi vantaggi con argomentazioni irresistibili (senza ironia) a mio giudizio. Alla fine dell'articolo la questione dell'infantilizzazione, che porta a tollerare il commissariamento della democrazia, aleggia come un'ombra e un peso non indifferente.

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Lucia Tassone 23 aprile, 2016 01:18

Gran bell'articolo, come sempre.

I richiami al significato profondo della democrazia mi emozionano e mi commuovono.

Ti ringrazio.

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