L'amore
Quando fu emanata la bolla Sublimis Deus - era il 13 giugno 1537 - a Roma di indios dovevano essersene visti pochi, o forse nessuno. Sicché è improbabile che papa Farnese fosse mosso dalla simpatia per quelle genti quando scrisse che le si doveva considerare esseri umani a tutti gli effetti («utpote veros homines esse») e vietò ai cristiani di ridurle in schiavitù e di spogliarle dei loro beni («sua libertate ac rerum suarum dominio privatos, seu privandos non esse»). Anche perché il decreto si applicava a tutti i popoli della terra, persino a quelli non ancora conosciuti («omnes alias gentes ad noticiam Christianorum imposterum deventuras»), di qualsiasi fede essi fossero («licet extra Fidem Christi»).
La Sublimis Deus deve essere una delle bolle pontificie più disapplicate della storia. Spagnoli e portoghesi continuarono a massacrare, depredare e sfruttare gli indigeni delle Americhe per secoli. Di lì a poco ci si misero i protestanti inglesi nelle colonie asiatiche e americane. Poi francesi, belgi, giapponesi, italiani, tedeschi e tanti altri, prima e dopo, ieri come oggi, con le armi o con l'usura, con i colpi di stato o le sanzioni, ciascuno a offrire la sua declinazione della lotta di classe geopolitica, quella in cui un popolo ne sfrutta un altro postulandone l'indegnità.
Nel frattempo l'idea inascoltata di Paolo III si era sviluppata, altrettanto inascoltata, nel diritto laico. Nel preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948) la «dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e [i] loro diritti, uguali e inalienabili» sono il «fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Corollario: che una cultura, una religione, una storia, una civiltà, un «regime» piacciano o dispiacciano, che suscitino ammirazione o ribrezzo, che li si reputi compatibili o incompatibili con i propri valori, non ha nessuna importanza. Non rileva nella titolarità dei «diritti uguali e inalienabili» di ciascuno. Non ne giustifica lo sfruttamento, l'occupazione, l'aggressione «umanitaria», la riduzione in schiavitù, la privazione dei beni e delle risorse alimentari, minerarie, naturali. Agli occhi del papa rinascimentale i precolombiani potevano ben essere dei selvaggi e ciò nondimeno «veri homines» con gli annessi diritti.
Sembra tutto ovvio, ma non lo è. O meglio non lo è più. Non tanto perché il gioco delle dominazioni continua sotto gli occhi di tutti, ma perché si arricchisce oggi di una livrea ancora più sfuggente, di una metamorfosi il cui passaggio cruciale si colloca nel preteso superamento dell'orizzonte minimo, ma comunque lontanissimo, del rispetto materiale e giuridico per anelare a ben altri lidi: quelli dell'amore. L'amore del diverso. Che sarebbe encomiabile, persino logico: se l'amore supera il rispetto, il rispetto non può che essere incluso nell'amore e trovarvi un presidio dalle tentazioni di un altro grande protagonista retorico dei nostri tempi, l'odio.
Ma i simboli linguistici mal sopportano le relazioni matematiche, sicché tocca farsi pedanti e verificare l'equazione sul campo. Il primo problema, già rilevato in questo blog, è che quando l'amore si fa ideologico tende a tradursi nel contrario del suo contrario, cioè nell'odio degli odiatori, cioè in odio. La sostituzione della diade giuridica (lecito/illecito) con la sua presunta genitrice morale (buono/cattivo) produce a sua volta una mera sostituzione del nemico. Per amare i popoli oppressi si odiano i popoli oppressori, per amare i colonizzati si odiano i colonialisti, per amare i paesi poveri si odiano quelli ricchi ecc. sorvolando così sulla proprietà trasversale dello sfruttamento. Sul fatto, cioè, che i suoi effetti si abbattono indifferentemente sui membri più deboli di entrambi i poli per premiarne i più forti. L'ambizione universale del diritto naufraga così nella una guerra tra i disoccupati, gli impoveriti e i diseredati dei due emisferi - da qualunque parte si tifi.
I frutti più avvelenati dell'amore sono però altri, sono quelli dal sapore più antico, quelli che
aggiornano i moventi dello sfruttamento ricomponendoli nelle mappe concettuali e linguistiche di chi lo
schifa a parole, quelli che negano il rispetto dovuto ai diversi nell'illusione di doppiarlo.
L'arsenale retorico dell'«antirazzismo» applicato al fenomeno dell'immigrazione di massa ci offre alcuni
esempi.
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In tempi meno sospetti, chi amava i popoli lontani si recava nei loro luoghi per apprenderne i costumi, la cultura e i valori. Se erano perseguitati o vittime dell'avidità altrui lottava affinché se ne rispettassero i diritti, all'occorrenza per la loro emancipazione e indipendenza politica. Accadeva così, fino a ieri, con palestinesi, baschi, tibetani, adivasi dell'India, indigeni dell'Amazzonia. Ma non oggi. Oggi l'amore del lontano serve invece a promuoverne l'evacuazione e lo sradicamento, anche a costo della morte, per poi offrire ai dislocati il più tossico dei premi: l'«integrazione», infame cencio lessicale per non parlare di assimilazione ai valori della civiltà dominante togliendo così ai deboli non solo la terra, ma finanche la cultura, la memoria di sé.
L'amore partorisce moventi. Che sono strabilianti nella loro inconsapevole volontà di sfruttare e strumentalizzare gli ultimi. Chi ad esempio immagina di imbarcare sempre più africani in Europa per allevarvi una razza «meticcia» socialmente più uguale, vede in quelle masse non esseri umani ma tori da monta da importare a milioni per testare un'ipotesi e realizzare un sogno di giustizia, oltretutto squinternato. Poi pazienza se qualche migliaio ne muore e se qualche altro si perde nella miseria o nel crimine. In fondo ce n'è tanti. Sulla stessa linea di pensiero zootecnico argomentano gli amorevoli della denatalità europea: per loro i lontani sono barili di spermatozoi da spremere per rimpinguare le mandrie occidentali. A che pro, poi? Non si sa, così hanno deciso. E tanto basta perché i poveri debbano attraversare il mare, riprodursi e vivere in un paese non loro. Accetti o non accetti, occupati o disoccupati, felici o infelici, poco importa. Purché siano tanti, sicut stellae caeli.
Forse ancora più brutale, ma classica, è l'idea che gli stranieri vadano desiderati perché fanno «i lavori che gli italiani non vogliono più fare». Cioè quelli sottopagati, un po' come il cotone del Mississippi che gli americani non volevano più raccogliere. Ma far notare il nesso con quel passato non serve: ci si sentirebbe rispondere che è comunque meglio della miseria da cui provengono. E che loro, mica come i nostri, ringraziano per un tozzo di pane. Trattandosi della stessa verbalizzazione di chi giustifica l'abbattimento dei salari e lo sfruttamento del lavoro contrattualmente indifeso, qui è davvero difficile distinguere il segno dell'amore. Ma ci proviamo lo stesso, osservando da un lato come la violenza del bisogno si trasfiguri nella virtù di una vita frugale, dall'altro come la pratica della delocalizzazione produttiva nei paesi poveri dovrebbe risolversi felicemente nel suo simmetrico: la delocalizzazione dei paesi poveri nelle nostre produzioni. A spese loro, ovviamente.
Ci sono poi le varianti fantasy, come quella in cui gli stranieri servirebbero - voce del verbo servire, da servus - per «pagare le pensioni agli italiani». O quella in cui i corpi dei nuovi immigrati sarebbero utili - dal verbo uti: usare, servirsi di - per tonificare il sistema immunitario degli europei, come lo zenzero e l'echinacea.
L'importazione di culture lontane è salutata anche dai tifosi del multiculturalismo, che per evitarsi l'incomodo di studiarle sui libri o nei luoghi in cui sono fiorite preferiscono prelevarle, ibridarle ed esibirne i campioni direttamente nelle nostre strade, sbattercele in faccia per rinforzare l'imprinting didattico. Ne nascerà un conflitto, sì, ma policromo e frizzante come le tele di un Leonid Afremov.
Gli abusi passati e presenti del colonialismo occidentale sono purtroppo reali. Per rimediare alla razzia e
allo sfruttamento delle risorse di un territorio bisognerebbe però incominciare a pagarle il giusto e non,
per buona misura, razziare e sfruttare anche gli esseri umani che ci abitano. Il concetto appare
spesso rinforzato da una lettura karmica della faccenda: se oggi l'immigrazione di massa provoca disagi e
disordini, si dice, va ricordato che le invasioni coloniali nei paesi di provenienza provocarono ben di
peggio, che «anche gli italiani stupravano le etiopi». L'amore partorisce così un altro frutto profumato:
l'eterna guerra per faide, la liceità di emendare il male col male e l'odio con l'odio. Usque ad finem
dierum. E trasfigura quegli esseri umani in armi biologiche da sganciare sull'occidente ricco ed
egoista, in un detersivo usa e getta per lavare l'onta dei padri.
I più pensosi, quelli che sanno guardare lontano, hanno invece un'idea. Che
agevolando l'ingresso di masse sradicate e diseredate in Europa si creeranno le condizioni della rivoluzione
degli ultimi, l'occasione di rovesciare il capitalismo che li ha tolti dalle loro terre scagliandoli come
merci nel mondo. Che mai sia accaduto alcunché del genere è un dettaglio che non disturba questi strateghi.
Né li disturba il fatto di asservire il disagio di milioni di persone a una loro personalissima opinione
politica. Né, peraltro, si sognano di chiedere il parere degli interessati, se per caso preferiscano
un SUV alle epistole di Marx, o una sistemazione per sé e i propri figli al paradiso socialista per i
pronipoti.
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Il mondo è terribilmente diseguale. Se anche non vi fosse una volontà politica di cagionare, promuovere e istigare le emigrazioni, il differenziale di benessere tra i popoli le renderebbe comunque accettabili o desiderabili per chi è nato dalla parte «sbagliata». Non solo nel Terzo Mondo ma ovunque, anche nell'Italia contemporanea che dopo la crisi si è svuotata di più di mezzo milione di persone.
Ma se l'osmosi reclama i suoi diritti, anche la ragione vuole i suoi. Da un lato, quello sistemico, le emigrazioni in massa non hanno mai colmato quel differenziale. Casomai lo hanno anzi esasperato sottraendo forza lavoro alle regioni meno avvantaggiate. Dall'altro lato, quello degli individui, la domanda di benessere all'estero è soddisfatta solo se esiste un'offerta. Non potendo includere e valorizzare gli alloctoni nel tessuto produttivo perché gravato da folli vincoli finanziari e legislativi che colpiscono ancora prima gli autoctoni, il nostro governo sta drogando quella domanda con i sussidi pubblici (4 miliardi stanziati solo nel 2017) caricando così la molla di un giocattolo dove si impoveriscono gli impoveriti per attirare i miseri e mantenerli nella miseria. Un giocattolo matematicamente destinato a scoppiare.
Non è francamente credibile che un sistema politico che affama finanche i suoi prossimi, aggredisce i lontani e semina ovunque diseguaglianza, competizione e indigenza, voglia e possa accogliere chi non ha nulla. È un insulto al buon senso. Sicché la retorica dell'«accoglienza» sembra piuttosto un tentativo di spostare il problema nei campi liberi della fiaba morale: non sapendo aggredire le cause di quel problema ci si rifugia nell'iperbole delle buone intenzioni, per quanto documentabilmente inutili o dannose, e ci si illude di sopperire con il sentimento alla violenza degli atti. Ma l'onnipotenza, insegnava Sándor Ferenczi, è il ripiego dell'impotenza. La pretesa di spalancare un continente ai sofferenti del mondo nasconde la frustrazione di non riuscire più modestamente a decifrare i modi e le responsabilità della loro sofferenza. O di non poterlo fare se non al costo di riconoscersi partecipi di quelle responsabilità, di avere ad esempio sostenuto politicamente chi nei giorni pari predicava di accogliere gli esclusi e in quelli dispari li moltiplicava sdoganando l'usura agli Stati, i conflitti internazionali, la finanziarizzazione dei servizi essenziali, l'umiliazione economica e giuridica del lavoro.
Purtroppo questo stratagemma anestetico non si limita a distrarre l'impegno indirizzandolo su
obiettivi esaltanti perché irrealizzabili. La velleità di amare i lontani non nasconde solo
l'incapacità di rispettarli, ma paradossalmente diventa un ulteriore pretesto per calpestarne i diritti.
Proiettandoli in una fiaba li spoglia della loro umanità («veros homines esse») per farne maschere
funzionali al buon esito della trama. Essi non sono ma servono: a immaginarci paladini di un
mondo più solidale, giovane, tollerante, colorato e senza muri, castigatori di una civiltà colpevole e
approfittatrice, lucidi tra gli ipocriti, samaritani tra i farisei. Che poi, calato il sipario, i gusci di
quell'umanità sradicata finiscano nel tritacarne dell'emarginazione e del conflitto sociale è un
trascurabile sottoprodotto del trip ideologico. Digeriti dallo sfruttamento emotivo, li si inoltrerà
alle più classiche cure di quello politico e materiale. Amorevolmente.
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