Mi si segnala lo studio di un giovane ricercatore italiano apparso su una rivista britannica in cui si
propone un'analisi e una sistematica delle «epistemologie pubbliche» che accompagnano il dibattito politico
nel nostro Paese. Lo studio (consultabile qui) ha il merito
importante di sollevare una questione sinora poco o per nulla considerata, di come cioè oggi la dialettica
tra cittadini e autorità includa sempre più frequentemente la messa in discussione delle informazioni
tecnico-scientifiche divulgate al pubblico per sostenere l'opportunità o la necessità delle decisioni che lo
riguardano. Di questi aspetti è invece urgente parlare. Nel mio piccolissimo, li ho trattati spesso su
questo blog, nel libro Immunità di legge, nel Manifesto
per la scienza e nell'ambito di altre iniziative promosse dall'associazione
Eunoè, che ho contribuito a fondare.
Secondo l'autore dello studio, nel dibattito italiano si confronterebbero oggi due fronti opposti: quello di chi cerca di arginare l'avversione popolare alla scienza (science aversion) e quello di chi ne denuncia la strumentalizzazione da parte di alcuni gruppi di potere (science perversion). I due approcci, rispettivamente etichettati come «tecnocratico» e «populista», sarebbero bene esemplificati dalle idee e dallo stile comunicativo di due figure altrettanto note ai lettori di questo blog: Roberto Burioni e Alberto Bagnai. I tratti caratteristici delle epistemologie in esame sono sintetizzati in una tabella nel testo dello studio, che incollo:
Pur ammettendo i vincoli imposti dall'esigenza di contrapporre semplificando, lo schema proposto introduce alcune conclusioni piuttosto sorprendenti. Leggo ad esempio che secondo i «populisti» lo scopo della scienza (riga 1) sarebbe quello di «mettere in discussione i dogmi», ma francamente non trovo questa idea né in Bagnai né in altri autori italiani, né penso anche mondiali. Ci può casomai essere il rifiuto di un'impossibile scienza dogmatica, che però sarebbe almeno nominalmente comune a entrambi gli schieramenti. Né trovo che la «verità» (riga 5) sarebbe per qualcuno rivelata dagli «attivisti informati» e non appunto dagli «scienziati accreditati», ai quali casomai i primi si rivolgerebbero con spirito critico per vagliare posizioni diverse. Né soprattutto trovo che la fiducia nel dato scientifico si giocherebbe tra i poli dialettici delle «giuste credenziali» e del «carisma» (riga 6) e non più semplicemente, come è nella definizione del metodo della scienza, sulla riscontrabilità e riproducibilità dei risultati.
La mia impressione è che l'autore abbia forzato la mano nell'estremizzare le posizioni esaminate (anche concedendo molto più del dovuto ai casi particolari dei due intellettuali assunti a campione) per ritagliarsi uno spazio di equidistanza da cui lanciare l'appello contenuto nelle conclusioni, di elaborare cioè una «terza via» che superi la rigida contrapposizione da lui stesso postulata, pur sulla scorta di altri autori, tra «autorità degli esperti e partecipazione democratica». Questa sintesi, scrive, potrebbe provenire dalle fila dei pensatori della «estrema sinistra», riconoscendo però che «al momento non esiste nulla del genere». Perché non allora dall'estrema destra o dal centro? Dai cattolici, dagli atei o dalla stessa comunità scientifica? Non lo spiega. Né spiega perché, in una prospettiva marxista dove anche la scienza può contribuire al mascheramento sovrastrutturale del conflitto tra le forze sociali (cfr. le riflessioni di Gramsci, nel Quaderno 11), ci si dovrebbe porre l'obiettivo di superare una definizione di politica come «lotta tra il popolo e le élite» (riga 7), cioè come lotta di classe.
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Lo studio del dott. Brandmayr contiene molti spunti utili e una vasta bibliografia. Ciò che però a mio parere gli difetta è un tentativo di delineare i determinanti sociali dei fenomeni che analizza. Questa omissione è già evidente nell'abstract, dove si anticipa che «l'ascesa del populismo in Italia» avrebbe contribuito a determinare «un allineamento insolito tra posizioni politiche ed epistemiche». Trovo assai problematico che un termine così contaminato dalla tenzone politica contemporanea ricorra in radice per ben quaranta volta nell'articolo senza che l'autore si premuri di darne una propria, chiara e univoca definizione. Di quale populismo si parla? Da quando è incominciata la sua «ascesa» nel nostro Paese? E da che punto in poi smette di essere un'aspirazione costituzionalmente legittima a «riaffermare il controllo democratico sulla politica» per diventare (nota 11) «crasso fanatismo»? E ancora, in che modo sarebbe una causa e non invece un effetto o una perifrasi degli stessi cambiamenti sociali che hanno prodotto i fenomeni esaminati nello studio?
L'uso di una categoria così problematica produce equivoci e sviamenti, il più evidente dei quali consiste nel dare per assunto che l'avversione alla scienza contro cui lotta il fronte «tecnocratico» sia una prerogativa della popolazione semplice, di coloro cioè che vorrebbero essere coinvolti nei processi di produzione e di validazione del sapere scientifico ma non hanno i titoli per farlo. Basterebbe tuttavia affacciarsi un po' più attentamente al dibattito per accorgersi che invece gli attacchi a certe posizioni considerate prevalenti o ufficiali provengono spesso anche da membri della comunità scientifica perfettamente «accreditati». Per restare al caso di Burioni, non sono ad esempio pochi i medici che mettono in discussione i motivi scientifici alla base della decisione di avere reso obbligatorie alcune vaccinazioni per l'infanzia, o di praticarne altre raccomandate (una breve antologia di queste posizioni è nel primo capitolo di Immunità di legge). Nel suo ultimo libro, l'accademico marchigiano sferra un duro attacco contro le cure omeopatiche, che però secondo una recente indagine sarebbero prescritte nel nostro Paese da circa un quinto dei medici in possesso delle «giuste credenziali», mentre solo poco più di un decimo di loro ne metterebbe in dubbio l'efficacia. Dinamiche simili si incontrano anche negli ambiti dell'economia (come è appunto il caso di Bagnai e di altri studiosi che lo hanno preceduto o seguito) e del clima.
Una doverosa rendicontazione di questa non trascurabile trasversalità avrebbe messo in crisi l'apparente simmetria della dialettica delineata dall'autore, restituendo in compenso un quadro molto più realistico della situazione. Si sarebbe ad esempio scoperto che l'insinuazione di «pervertire» la scienza per servire interessi non confessabili proviene da entrambi i fronti, implicitamente o anche esplicitamente, come quando il citato Burioni accusava alcuni medici di «mettere in dubbio il vaccino... per fini di lucro» o il suo collega e compagno di lotta Alberto Villani avvertiva che «intorno ai bambini non vaccinati girano interessi economici molto forti». Da lì sarebbe soprattutto emerso un fenomeno di cui è grave tacere, cioè l'uso odierno di delegittimare, richiamare o addirittura sanzionare gli specialisti che non si conformano a un messaggio scientifico accreditato dall'autorità politica. Se si omette di considerare questa minaccia - gravissima e indegna di una società che si dice liberale - è impossibile cogliere la sproporzione dei rapporti di forza tra le posizioni illustrate e si crea nel lettore una falsa percezione di equilibrio, privandolo così di un elemento fondamentale per capire le ragioni di un conflitto che vede una delle parti schiacciata, screditata e ridotta al silenzio. La presa d'atto del fenomeno aiuterebbe inoltre a capire, più di mille «populismi», perché l'opinione pubblica creda sempre meno nell'indipendenza e nella sincerità di chi formula, diffonde o anche semplicemente accetta le posizioni caldeggiate dall'autorità.
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Fatta questa lunga premessa critica, se io fossi ciò che non sono - uno scienziato sociale - svilupperei
così l'argomento:
- I cittadini non mettono in discussione la scienza e gli scienziati, ma molto più modestamente i messaggi scientifici addotti dall'autorità per giustificare le decisioni politiche che li penalizzano, materialmente (reddito, patrimonio) o immaterialmente (diritti, libertà);
- Le critiche di cui al punto precedente sono condivise anche da esponenti accreditati delle comunità scientifiche di riferimento. Ciò suggerisce che la contrapposizione non è tra scienza e antiscienza, ma tra modelli di convivenza (asse politico), interessi dei singoli e di classe (asse sociale) e interpretazioni dei dati disponibili (asse scientifico). Il dibattito è polarizzato dalle decisioni politiche e dai loro effetti, non dagli orientamenti epistemici.
- Le critiche di cui al punto 1 si avvalgono di argomenti e di analisi elaborati da una parte degli esponenti accreditati delle comunità scientifiche di riferimento, ancorché di norma minoritaria (vedi punto seguente). Ciò suggerisce che i cittadini si affidano al parere agli esperti e riconoscono in essi i portatori non di una «scienza» ma di una pluralità di posizioni spesso in reciproco conflitto. Questo ultimo aspetto, più che integrare una compiuta epistemologia, scaturisce da una semplice presa d'atto.
- Per proteggere i propri messaggi dalle critiche provenienti da alcuni membri accreditati della comunità scientifica (punti 2 e 3), l'autorità politica ha inaugurato la pratica di richiamare o sanzionare gli esperti che non si conformano a quei messaggi, ad esempio attraverso gli ordini professionali di appartenenza. Questa pratica rende impossibile il libero e necessario confronto tra specialisti per validare e migliorare le nozioni su cui poggiano le decisioni politiche, non consente al pubblico di misurare le effettive posizioni in campo e avvera il sospetto di una politicizzazione coatta della scienza.
- Ovunque sia possibile, nel vagliare i messaggi di cui al punto 1 e nell'orientarsi tra le diverse posizioni degli esperti, i cittadini adottano il criterio della validazione empirica. Osservano, ad esempio, che secondo la loro esperienza e i dati statistici disponibili le politiche di austerità fiscale non hanno portato i vantaggi promessi al loro benessere materiale, alla quantità e qualità dell'occupazione, alla crescita dell'economia e all'offerta di servizi, senza peraltro centrare neanche l'obiettivo minimo dichiarato di migliorare gli indicatori di finanza pubblica. La mancata soddisfazione del criterio empirico è il principale, se non unico, motivo della mancata fiducia dei cittadini nell'autorità e nei messaggi scientifici da essa accreditati.
- La novità che andrebbe indagata non è l'attitudine della popolazione nei confronti della scienza (ammesso che sia davvero nuova), ma l'utilizzo da parte della politica di nozioni di tipo scientifico per asserire la necessità o persino l'inevitabilità delle proprie decisioni. Occorrerebbe chiedersi se questa pratica effettivamente inedita sia il segno di una trasformazione in senso neopositivistico della società o non piuttosto - come credo - un modo per giustificare provvedimenti impopolari, perniciosi per la maggioranza dei cittadini e perciò incompatibili con il metodo e lo scopo della democrazia. Andrebbe valutata l'ipotesi che il discorso sulla scienza traduca un discorso sul governo in cui cova il desiderio, anche di una parte della popolazione, di un autoritarismo gerarchico che non sarebbe altrimenti possibile esprimere in modo esplicito con il vocabolario della politica. A mio parere la nostra società non ha alcun bisogno di una nuova epistemologia pubblica, né di un'epistemologia pubblica in generale, ma di accettare l'incertezza e l'incompletezza di un confronto teso a contemperare gli interessi legittimi di ciascuno, nessuno dei quali può vantare un primato «scientificamente provato» sugli altri se non al costo (altissimo) di mettere sotto tutela la scienza. Come sta purtroppo avvenendo.
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