Dopo il grande successo elettorale del Movimento 5 Stelle si parlerà molto di sprechi di denaro pubblico. O meglio, se ne parlerà ancora di più, perché di sprechi si è sempre parlato: ne parlano i miei lettori, i parenti, gli amici. Se ne parla, più o meno, nelle segreterie di ogni partito e ai tavoli di ogni bar.
Quando un concetto mette radici ubiquitarie nel discorso pubblico, diventa un concettoide. Rescinde
cioè il nesso con gli antefatti che ne giustificano l'uso e si fa semanticamente autoportante. Nel rimandare
tacitamente a un sistema condiviso di umori, convincimenti e narrazioni, riposa nella sua apodissi e innesca
un processo di sintesi dove, nel dire una cosa, sì è detto tutto. Accanto
agli ormai storici destra e sinistra,
annoveriamo tra i concettoidi più recenti corruzione, debito, Europa, mercati,
mercato (libero), credibilità, scienza, più una fortunata serie di ismi:
fascismo, razzismo, populismo, nazionalismo ecc. Se per marcare il primo gruppo
di sostantivi ci siamo sovente avvalsi, con altri autori, di grafie univerbali a significarne la
ripetitività vuota e rituale (Leuropa, Lascienza ecc.), il secondo si marca da sé nell'uso
vulgato ammettendo la forma, altrimenti inaudita, dell'astratto plurale: fascismi, populismi,
razzismi ecc.
Il fenomeno, così tipico del pensiero simbolico, produce l'effetto di relegare nell'irrilevanza l'indagine dei fattori contingenti che di volta in volta possono dimostrare, smentire o problematizzare la tesi. Perché il messaggio di un concettoide è sempre anteriore al suo guscio semantico, ricade cioè tutto nel suo postulato. Gli «sprechi di denaro pubblico» (Glisprechi) non fanno eccezione e si giovano anzi di due postulati - semantico e ontologico - che cercheremo nel seguito di sbrogliare (in due puntate).
Postulato semantico
A «gli sprechi» va esteso quanto si è già osservato su questo blog a proposito de «il merito»: entrambi i termini sottendono un giudizio, non un criterio di giudizio. Chi parla di sprechi ha già deciso che una spesa è inutile sicché, collocandosi al di là del dibattito, rende inutile il parlarne, assurdo il farne un programma politico.
Il problema sottaciuto dal concettoide è che, naturalmente, ciascun membro della comunità ha opinioni spesso diverse su ciò che è spreco e ciò che non lo è. Come minimo, uno spreco non è tale per chi ne trae un vantaggio. Persino le «cattedrali nel deserto» danno lavoro a maestranze, ingegneri e fornitori, quando non a politici e funzionari corrotti. E il capriccio dei voli di Stato muove un discreto indotto aeronautico. Sarebbe sì giusto obiettare che in questi casi estremi - ma sempre citati, come se fossero la norma - lo spreco scaturirebbe dalla scarsa utilità dell'opera per la collettività. Ma anche adottando questo criterio, di conformità all'utilità pubblica dichiarata, restano in mezzo le praterie dell'inclinazione politica di ciascuno. Che non sono un residuo ma la prevalenza dei casi: quella in cui si giocano i miliardi.
Ad esempio, per alcuni - tra cui chi anche scrive - gli oltre 85 miliardi di euro versati alla Comunità Europea dal 2000 a oggi, al netto dei
contributi ricevuti, sono fuor di dubbio sprecati, sprecatissimi. Per altri si tratterebbe invece di un
investimento politico importante, addirittura di «un sogno». Per alcuni - tra cui chi scrive - gli oltre 4
miliardi di euro spesi ogni anno per l'accoglienza dei richiedenti asilo sono sprecati e anzi dannosi,
perché alimentano un traffico immigratorio criminale, pericoloso e senza sbocchi. Per altri assolverebbero
invece un «dovere umanitario». Per chi scrive saranno sprecati e male indirizzati i soldi pubblici di un
«reddito universale» soggetto a condizionalità incompatibili con il diritto umanitario. E lo sono quelli versati direttamente a
strutture educative e sanitarie private, o indirettamente a fondi assicurativi privati tramite deduzioni
fiscali. Per altri servirebbero invece a promuovere servizi «più efficienti» e «concorrenziali».
In compenso, per alcuni sarebbe uno spreco, e anzi «un pericolo», mantenere
piccoli presidi ospedalieri decentrati. Non così per chi
scrive, né per le puerpere, gli infartuati e gli incidentati che si trovassero disgraziatamente in quei
pressi. Altri, prima di loro, giudicarono uno spreco di soldi pubblici il Corpo
Forestale dello Stato. Altri ancora una lunga serie di esami offerti
dal SSN.
Dagli esempi citati sembra chiarirsi che gli «sprechi» sottendano spesso un giudizio politico, non economico. E che in quei casi definiamo «sprechi» le politiche che riteniamo inutili e sbagliate, spostando semplicemente il baricentro semantico sul piano strumentale dei soldi spesi per realizzarle. Se inconsapevole, questa licenza retorica è pericolosa perché conferisce alle opinioni e ai bisogni di ciascuno la patente di una necessità oggettivata dal riferimento contabile e dalla presunzione di un criterio etico universale, di uno sfuggente e lirico bene comune. Se in una democrazia si discute delle politiche, marcare le proposte politiche a sé sgradite come «sprechi» serve a escluderle dalla discussione. Il concettoide de «Glisprechi» andrebbe così ad aggiungersi a un già nutrito novero di strategie di sterilizzazione della partecipazione democratica.
Ora, qual è il problema? Il solito: che quando una proposta politica pretende di scaturire da una norma tecnica (tecnocrazia) o scientifica (scientismo), la definizione della norma è monocraticamente imposta dal manovratore in carica. I cittadini comuni chiedono a chi li governa di fare la «lotta» a un'ampia tassonomia di sprechi: opere incompiute, appalti inutili e/o gonfiati, indennità parlamentari, pensionamenti precoci, stipendi a «fannulloni» del pubblico, posti di lavoro ad hoc nei «carrozzoni» di Stato, sussidi «immeritati» ecc. spesso confondendo, peraltro, la spesa «cattiva» con i reati veri e propri, nella già osservata illusione di politicizzare la legalità. Dal canto loro, i manovratori rispondono pronti all'appello, lo colgono anzi al balzo. In che modo? Asservendo il concettoide a sé stessi e sostituendovi le loro definizioni. Sicché nei titoli dei loro giornali leggeremo che a pesare sui conti pubblici sono piuttosto i malati cronici, gli impiegati statali e le pensioni.
È chiaro il meccanismo? I primi stendono un tappeto rosso dialettico ai secondi e offrono loro il movente blindato di politiche nominalmente indirizzate al risparmio. Come dimostreranno i fatti, da lì in poi la strada è tutta in discesa: da lì partiranno le riduzioni dei trasferimenti a tutti i settori, dalla sanità alla sicurezza, dall'istruzione alla giustizia, impunite perché legittimate da Glisprechi che vi si annidano. I cittadini, certo, borbotteranno confusi che non era questo il modo («bisognava ottimizzare la spesa, non ridurla indiscriminatamente!»), ma in cuor loro approveranno il quid, fedeli al copione del questismo. Una volta approntato il contenitore semantico vi si può far entrare di tutto, anche il suo contrario. Si possono ad esempio imputare a esigenze di risparmio i patti di stabilità imposti agli enti dello Stato, i quali, costretti a delegare gli investimenti ai privati, spenderanno più del doppio. Per non sprecare denaro! E si può derubricare a spreco qualsiasi cosa, anche la vita umana, per assicurare la spesa pubblica che più di ogni altra si avvicina all'idea perfetta di esborso improduttivo, parassitario, socialmente inutile e mal distribuito: gli interessi sul debito pubblico.
Scenderanno mai queste travi nell'orizzonte di chi insegue Glisprechi? Temiamo di no. Perché accanto agli
sprechi continueranno a esistere Glisprechi, devono anzi esistere per assolvere la loro missione, di tenere
chi è suddito alla larga dalle decisioni. E dal bottino.
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