Con questa pedanteria si chiude una trilogia sul collaborazionismo delle sinistre nell'avanzata delle oligarchie usurocratiche in Europa. Nelle puntate precedenti si è definita una fenomenologia generale e una breve analisi della transizione da no-global a no-borders. Nel seguito si propone una riflessione sui temi delle nazioni e del patriottismo, oggetto del fuoco complice e incrociato delle élites finanziarie globali e di un internazionalismo di sinistra a-storico e rigidamente ideale.
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Per quanto indubbiamente opere dell'uomo, le nazioni e i confini sono retaggi consegnatici dai millenni: come l'orografia, il clima, gli oceani. Esistono, esistevano da molto prima che nascessimo, e noi stessi ne siamo anche fisicamente il prodotto. Salvo rare eccezioni, essi nascono e si dissolvono nel sangue, il che è già un primo, ottimo motivo per lasciarli lì dove stanno e non crearne di nuovi rincorrendo ogni volta sogni che, dacché esiste l'umanità, distruggono vite e civiltà al grido di #questavoltaèdiverso.
Al netto della storia e della sua violenza, le nazioni sono anche giurisdizioni, cioè spazi delimitati - come lo è ogni cosa per esistere - in cui si applicano le politiche di una comunità e se ne impone il rispetto. Sicché le nazioni sono il luogo della politica. A chi da sinistra schifa le categorie nazionali è fin troppo facile portare l'esempio dei governi socialisti, tutti immancabilmente patriottici e pronti a difendere con le armi la propria autodeterminazione: URSS, Cina, Vietnam, Cuba, Venezuela ecc. E non potrebbe essere altrimenti. Quando un'idea politica si cala nella realtà deve attecchire in uno spazio fisico che va tutelato con l'esercizio della sovranità. Così il socialistissimo Venezuela di Maduro, che l'anno scorso indirizzava al governo golpista di Obama una canzone da far piangere sangue agli internazionalisti de noantri:
Viva Venezuela mi patria querida
quien la libertó mi hermano
fue Simón Bolívar.
Para defender la patria
Nos hace fuertes la unión
somos una misma sangre
con un solo corazón.
Cabalgaremos los sueños
De construir una patria
Que sea libre y soberana [ovvove!]
...
Per concludere così:
Viva Venezuela libre
Viva mi patria querida
Viva la paz de los pueblos
Viva la América unida
Evidentemente, per i socialisti venezuelani l'aspirazione a una "patria libre e soberana" e
l'omaggio patriottico ai suoi liberatori non contraddice né ostacola il cammino verso la "paz de los
pueblos" e la "América unida". Per un motivo che dovrebbe essere ovvio: un progetto
politico va coltivato e difeso prima di essere eventualmente offerto al mondo. In questo senso la
nazione è celebrata non solo e non tanto in sé, ma in quanto incubatrice e roccaforte di una visione
politica che senza di essa vivrebbe solo nell'immaginario e nei discorsi dei rivoluzionari da bar.
In Italia non vige il socialismo reale, ma la democrazia: che non è un'idea né un'inclinazione morale dei
suoi cittadini, ma la norma prescritta da una Costituzione che si applica al'interno dei confini nazionali.
Sicché è facile intuire perché chi
mal sopporta la democrazia costituzionale predichi a un tempo il superamento della nazione e la
cessione della sua sovranità.
Interrogarsi sul vettore storico e non sui contenuti è il modo
migliore per farsi rifilare qualsiasi sbobba purché corredata dai simboli
a sé cari. Tra i primi provvedimenti adottati da Thomas Sankara, che pure era socialista e
panafricanista convintissimo, vi furono severe misure protezionistiche per assicurare
l'autosufficienza alimentare al proprio paese. Non era un ideale, ma uno strumento urgente per salvare
milioni di vite. Forse oggi qualche intellettuale da circolo avrebbe suggerito all'eroe africano di lasciare
il suo popolo nella fame per non tradire i doveri dell'internazionalismo, in attesa di un'Africa unita sotto
la stella rossa. Nel qual caso probabilmente Thomas sarebbe ancora tra noi e, una volta
all'anno, volerebbe a Cernobbio al seguito del più giovane Varoufakis per deliziare la platea con la
scimmietta di una rivoluzione romantica e senza rischi.
Proteggere una giurisdizione da merci, prassi commerciali e flussi migratori non è una forma di governo né una filosofia, ma un normale atto di amministrazione. Ciò che andrebbe valutato, e giudicato, sono le politiche che in tal modo si intende difendere e quelle da cui ci si intende difendere.
Nelle esperienze qui citate appare anche una tensione patriottica da cui
trarre un insegnamento: che cioè il patriottismo ha in sé anche una dimensione a-simbolica e funzionale che
nulla ha a che vedere con la volontà di aggredire, sottomettere o disprezzare gli eteroctoni. L'amore per la
propria nazione, regione o comunità è all'origine una forma di amore di prossimità
antropologicamente affine all'amore famigliare, con l'utile e legittimo fine di valorizzare ciò che
si è e che si ha. Voler bene ai propri figli, fratelli, coniugi e genitori non significa
approvarne incondizionatamente gli atti, né idolatrarli, né tantomeno odiare il resto dell'umanità. Anzi, è
il contrario: a chi non sa amare i propri figli non è saggio affidare i figli altrui. E a chi non sa amare
la propria comunità non è saggio affidare il mondo.
Che esistano una, cento o mille nazioni è in teoria del tutto indifferente. Nella pratica è invece prudente tenercele strette: non solo per non smuovere le polveri delle guerre civili, ma soprattutto perché quel poco o tanto che le masse hanno conquistato è appeso agli ordinamenti nazionali, non a un iperuranio che ce lo conserverà per un improbabile e venturo impero dei giusti. Non sono i confini a condannare i disperati del mondo, ma le politiche di coloro che vogliono abolire i confini per fare della disperazione la norma. Cioè degli stessi che da tempo preparano e consolidano le fondamenta di un governo dai confini sempre più ampi, a tendere verso il sogno (per pochi) o l'incubo (per tutti) di governi continentali se non addirittura di un governo mondiale in cui il dominio dei pochissimi avrebbe la meglio sulle resistenze politiche e costituzionali maturate - che piaccia o meno - all'interno delle esperienze nazionali.
Non c'è motivo per credere che la riduzione del mondo a pochi superstati - non a caso, come aveva immaginato Orwell - segnerebbe la fine dei nazionalismi fanatici e guerrafondai. Anzi. Ai nazionalismi del presente si sostituirebbe un neonazionalismo posticcio e retorico, conflittuale al suo interno e aggressivo verso l'esterno. Gli imperi del passato si facevano la guerra esattamente come le città-stato del Peloponneso o le tribù della Gallia, ma con ben altra disponibilità di mezzi e quindi procurando più lutti.
In compenso, una razionalizzazione di questo tipo produrrebbe - e sta già producendo - un effetto tonnara dove la riduzione dei centri decisionali estenderebbe il potere di chi già li occupa a popolazioni e territori sempre più vasti, a parità di sforzo. Gestire singolarmente campagne di comunicazione e di lobbying in decine di paesi è molto costoso, ma soprattutto espone al rischio di conseguire esiti eterogenei per modalità ed efficacia. Sicché conviene concentrare gli sforzi in un'unica sede, ad esempio nei corridoi asettici di Bruxelles, lontani dagli occhi degli elettori e dal cuore dei potentati locali. La centralizzazione è l'aspirazione naturale del dispotismo. Come Luigi XIV eresse la reggia di Versailles per allontanare l'aristocrazia dalle province ed estendervi il suo dominio assoluto, oggi le élites finanziarie coltivano il feticcio di un mondo fraterno e senza confini per levarsi i popoli, e i cosiddetti intellettuali, dai piedi.
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